Art. 48 Codice Deontologico Forense: divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega

12.07.2024

L'art. 48 Codice Deontologico Forense – rubricato "Divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega" - è collocato all'interno del Titolo IV, il quale a sua volta è rubricato "Doveri dell'avvocato nel processo". Tale Titolo, infatti, racchiude tutti quelli che sono gli obblighi gravanti sull'avvocato, sia nei confronti degli altri colleghi, che nei confronti dei magistrati e dei propri e altrui clienti.

Per comprendere appieno il significato di questa norma, è necessario passare in rassegna ogni singolo canone, sì da evidenziare i punti salienti sui quali merita compiere una riflessione.

Il canone primo dell'art. 48 Codice Deontologico Forense prescrive: "L'avvocato non deve produrre, riportare in atti processuali o riferire in giudizio la corrispondenza intercorsa esclusivamente tra colleghi qualificata come riservata, nonché quella contenente proposte transattive e relative risposte".

Tale canone non si limita a dichiarare improducibile in giudizio la corrispondenza espressamente riservata intercorsa tra colleghi, bensì estende il divieto a tutta la corrispondenza che implichi una proposta per addivenire alla definizione transattiva della lite e anche alle relative risposte.

L'intento è pregevole: lasciare alle parti l'opportunità di dialogare nel modo più approfondito e consentire alle stesse di esprimere le proprie considerazioni, senza che quanto dichiarato si possa ritorcere contro il dichiarante.

Se è agevole individuare un documento qualificato come espressamente riservato, non sempre è semplice identificare specificatamente tutti i documenti di cui non si può dare contezza al di fuori dello stretto rapporto tra colleghi, dato che non sempre il documento viene indicato come "riservato".

La riservatezza, tra l'altro, si estende anche ai documenti allegati alla comunicazione dichiarata riservata, siano o non siano richiamati espressamente. Ugualmente non deve essere consentito fare cenno negli atti difensivi a "documenti riservati che non possono essere prodotti". La riservatezza, infatti, colpisce non solo il contenuto del documento, ma anche la sua stessa esistenza (in tal senso, Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 177/17).

Il predetto canone dichiara altresì riservata la corrispondenza scambiata tra colleghi, contenente "proposte transattive e relative risposte".

Sul punto è intervenuto il Consiglio Nazionale Forense con la sentenza n. 19/15: "Pone in essere un comportamento disciplinarmente rilevante il professionista che produca in giudizio una lettera inviatagli dal collega di controparte e contenente una proposta transattiva (art. 48 ncdf, già art. 28 cdf). La riservatezza, infatti, colpisce non solo tutte le comunicazioni espressamente dichiarate riservate, ma anche le comunicazioni scambiate tra avvocati nel corso del giudizio, e quelle anteriori allo stesso, quando le stesse contengano espressioni di fatti, illustrazioni e proposte di carattere transattivo, ancorché non dichiarate espressamente".

Ancora il Consiglio Nazionale Forense ha aggiunto in merito: "La norma di cui all'art. 28 c.d.f. (ora, 48 ncdf) mira a salvaguardare il corretto svolgimento dell'attività professionale, con il fine di non consentire che leali rapporti tra colleghi possano dar luogo a conseguenze negative nello svolgimento della funzione defensionale, specie allorché le comunicazioni ovvero le missive contengano ammissioni o consapevolezze di torti ovvero proposte transattive. Ciò al fine di evitare la mortificazione dei principi di collaborazione che per contro sono alla base dell'attività legale […]" (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 92/14).

In forza del secondo canone, invece, "l'avvocato può produrre la corrispondenza intercorsa tra colleghi quando la stessa: a) costituisca perfezionamento e prova di un accordo; b) assicuri l'adempimento delle prestazioni richieste".

Questo canone rappresenta un'eccezione rispetto al primo, in quanto permette di produrre in giudizio e di consegnare al cliente la corrispondenza scambiata con il collega, se questa ha indotto i due avvocati a stipulare un accordo in favore dei propri assistiti e se ha fatto sì che le prestazioni richieste venissero adempiute.

È noto, difatti, che, una volta raggiunto un accordo definitivo o una volta prestata adesione alla richiesta, la riservatezza non ha più ragione di porsi; in tali casi le lettere scambiate tra colleghi devono essere producibili, rappresentando il superamento dei contrasti e il nuovo regolamento dei rapporti.

Il canone terzo dispone: "L'avvocato non deve consegnare al cliente e alla parte assistita la corrispondenza riservata tra colleghi; può, qualora venga meno il mandato professionale, consegnarla al collega che gli succede, a sua volta tenuto ad osservare il medesimo dovere di riservatezza".

Esso, rifacendosi al primo canone, aggiunge un elemento ulteriore sul punto: se è vero che un difensore non possa scambiare con un altro difensore la corrispondenza intercorsa con il collega e dichiarata – espressamente o per comportamenti concludenti – riservata, è altresì possibile che il difensore di una parte venga, per volontà di quest'ultima o per volontà propria del legale, sostituito con un altro avvocato. In questi casi, l'anzidetto canone concede la possibilità al precedente difensore di consegnare a quello nuovo tutta la documentazione inerente quel dato procedimento. Il difensore intervenuto secondariamente ha, però, il dovere di non divulgare le informazioni ottenute, avendo assunto il medesimo ruolo del precedente difensore ed essendo, pertanto, tenuto al pedissequo rispetto del dovere di riservatezza.

Il quarto canone prescrive quanto segue: "L'abuso della clausola di riservatezza costituisce autonomo illecito disciplinare".

Dopo aver previsto e descritto la c.d. "clausola di riservatezza" nei primi tre canoni, la norma in esame sembra contenerne l'ampliamento nel momento in cui stabilisce che l'abuso della clausola di riservatezza costituisce autonomo illecito disciplinare.

Alla luce di ciò, sorge spontaneo chiedersi cosa sia tale istituto, dato che non esistono precedenti giurisprudenziali in merito.

A parere di chi scrive, con tale prescrizione si potrebbe far riferimento a uno scritto dichiarato riservato e contenente espressioni offensive nei confronti del collega o del cliente, ovvero contenente accuse di illiceità o addebiti di vario genere, perfino estranei alla lite: in questi casi – a ragione – il difensore che decide scientemente di insultare un collega, non potrà certo avvalersi della clausola di riservatezza, onde evitare di essere punito per il comportamento tenuto, in quanto, se ciò fosse permesso, vorrebbe dire autorizzare l'abuso di un diritto come quello alla riservatezza nelle comunicazioni, che comunque deve essere rispettoso delle regole generali di buona condotta vigenti, prima che riguardo al rapporto tra avvocati, relativamente al rapporto tra individui civili e corretti.

L'ultimo canone, il quinto, tipicizza quelle che sono le sanzioni conseguenti la violazione di questa disposizione: "La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della censura", la quale consiste nel biasimo formale e si applica quando la gravità dell'infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti del difensore e il suo comportamento successivo al fatto inducono a ritenere che egli non incorrerà in un'altra infrazione.

Alla luce di quanto affermato, è possibile concludere che tale norma deontologica sia dettata a salvaguardia del corretto svolgimento dell'attività professionale e che, salve le eccezioni previste espressamente, prevalga persino sul dovere di difesa (in tal senso, Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 362/16), dovendo gli avvocati collaborare rispettosamente l'un con l'altro, in quanto "l'avvocato deve svolgere la propria attività consentendo al collega di svolgere del pari la sua funzione, senza ritorcere (l'uno all'altro) proposte conciliative, ammissioni o consapevolezza di torti; ciò che si ottiene appunto con la riservatezza della corrispondenza fra colleghi (obbligo particolare, rispetto al dovere più generale di segretezza e riservatezza). Invero, se tale principio non esistesse, i patroni sarebbero indotti a non fare ricorso agli atti scritti e verrebbe meno ogni possibilità di iniziative conciliative, con mortificazione dei principi di collaborazione che sono per contro a base dell'attività legale" (Danovi,"Codice deontologico forense", Giuffrè, 2006, pp. 467 e seguenti).

Avv. Laura Giusti