Abuso di autorità contro arrestati o detenuti: condannato il Carabiniere che bendò Natale Hjorth

09.08.2023

È stato condannato a due mesi di reclusione, pena sospesa, per "abuso di autorità contro arrestati o detenuti" il Carabiniere che aveva bendato Natale Hjorth, fermato per l'omicidio del vicebrigadiere Cerciello Rega.

L'art.608 c.p., come precisato anche dal Tribunale di Roma, espressamente punisce con la reclusione fino a trenta mesi "il pubblico ufficiale, che sottopone a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata o detenuta di cui egli abbia la custodia, anche temporanea, o che sia a lui affidata in esecuzione di un provvedimento dell'Autorità competente".

Le misure di rigore debbono consistere in una modificazione peggiorativa della condizione del soggetto, nonché in una ulteriore limitazione della libertà residua, di cui hanno diritto anche le suddette persone.

Dunque, attraverso la norma incriminatrice, che va necessariamente letta oggi alla luce del principio fondamentale di cui all'art.13 Cost., il legislatore ha ritenuto, in situazioni delicatissime come quelle conseguenti alla privazione della libertà di un individuo, di legittimare solo ed esclusivamente quelle misure che siano "espressamente consentite dalla legge".

Il Tribunale, ricostruita la vicenda sulla base del materiale probatorio acquisito, ha escluso che la misura adottata,nello specifico quella volta aimpedire al soggetto di utilizzare le sue capacità visive,fosseespressamente consentita da una disposizioneavente forza di legge.

Inoltre, ha ritenuto per nulla condivisibili le argomentazioni dell'imputato il quale sosteneva che il "bendaggio" fosse giustificato sia dalla necessità di tranquillizzare il Hjorth, sia di evitare un qualsiasi contatto con altre persone di interesse investigativo che sapeva trovarsi all'interno degli uffici.

"A differenza di quanto avviene per gli uccelli rapaci quando vengono privati degli stimoli visivi – si legge in sentenza - un essere umano appena aggredito con quelle modalità dovrebbe, all'esatto contrario, agitarsi molto di più non potendo nemmeno vedere se qualcuno si appresta a colpirlo e da che punto arriva la minaccia e comunque non potendo nemmeno comprendere, muovendo il capo, se rischiava di colpire qualche oggetto che si trovava nelle sue immediate vicinanze".

L'unica possibilità di impunità per il pubblico ufficiale che ha posto in essere la condotta – osserva il Giudice di merito - sarebbe stata quella di allegare l'esistenza di una causa di giustificazione, tra i quali, l'adempimento di un dovere o lo stato di necessità.

In ogni caso, l'eventuale riconoscimento dell'art.51 c.p. non avrebbe, comunque, "coperto" i momenti successivi in cui quella misura di rigore è stata mantenuta, mentre la seconda esimente, cui ha fatto riferimento la difesa, presuppone che il pericolo per l'incolumità fisica di una persona, presunto o reale che sia, non fosse altrimenti evitabile.

È dunque evidente – si conclude – "come quella misura di rigore posta in essere dall'odierno imputato, lungi dal trovare giustificazioni o esimenti di sorta in ragioni di servizio ovvero in necessità, non altrimenti evitabili, di elidere il rischio di danni fisici per lo stesso soggetto cui era stata imposta".

Il giudice ha, altresì, riconosciuto la sussistenza dell'elemento soggettivo, dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di far soggiacere la persona arrestata o detenuta a misure di rigore, con l'intenzione di restringere maggiormente la libertà residua.

Operando, infine, un raffronto con l'art.3 della CEDU il quale stabilisce che "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pena o trattamenti inumani o degradanti", il contenuto della disposizione in esame appare più ampio e, al contempo, più ristretto.

Mentre da un lato, anche una misura di rigore (usando i termini dettati dal codice) regolarmente prevista dalla legge potrebbe violare l'art.3 suddetto qualora un trattamento, anche se consentito da uno Stato firmatario, finisca per essere ritenuto inumano o degradante, d'altra parte nulla impedisce ad uno Stato – come accaduto in Italia - di "attenuare" la soglia di tollerabilità di comportamenti comunque vessatori nei confronti di soggetti fermati o arrestati e, dunque, vietare a coloro che li hanno in custodia condotte restrittive che, seppur non inumane e degradanti secondo la CEDU, non funzionalmente necessarie allo scopo perseguito.

Dott.ssa Francesca Saveria Sofia