
Le attribuzioni patrimoniali nelle convivenze more uxorio tra obbligazioni naturali e ingiustificato arricchimento
A cura di Avv. Michele Zabeo
Nella tradizione sociale e giuridica più risalente la famiglia, quale unità fondamentale e centro dello sviluppo di ogni cittadino, si fondava sull'istituto matrimoniale. Tale legame indissolubile tra famiglia e matrimonio ha a lungo caratterizzato le politiche legislative nazionali e, ancora oggi, connota in una certa misura le scelte normative in materia.
Il fondamento giuridico veniva e viene tipicamente ricondotto all'interpretazione che si dà del dettato costituzionale e, in particolare, dell'art. 29. Da tale norma, grazie all'interpretazione dottrinale più risalente, si è potuto sostenere che l'unica famiglia legittima era quella fondata sul matrimonio, ma anche che l'unità familiare meritava una tutela primaria e prevalente sull'interesse dei singoli suoi componenti.
Inevitabilmente questa interpretazione, oltre a fondare la cd. concezione pubblicistica della famiglia, ha finito per escludere l'ammissibilità di nuclei familiari non fondati sul matrimonio. In tale contesto storico e normativo le convivenze more uxorio erano avversate anche in virtù di una tradizione ancor più risalente e legata al codice napoleonico ed agli influssi di esso sui testi legislativi nazionali[1].
Quest'idea tradizionale della famiglia ha dovuto, tuttavia, confrontarsi con un'evoluzione interpretativa, una serie di riforme e un radicale mutamento degli usi che hanno di fatto reso possibile il moltiplicarsi di famiglie formate da persone non coniugate.
Tale progressiva erosione del primato matrimoniale è stata consacrata dalla Corte Costituzionale la quale ha riconosciuto la valenza costituzionale della famiglia non fondata sul matrimonio differenziandone, tuttavia, il fondamento normativo[2]. Se la famiglia matrimoniale, come detto, poggia sull'art. 29 (e sull'interpretazione che di esso se ne dà), le famiglie non fondate sul matrimonio si radicano nell'art. 2 Cost. e, in quanto tali, meritano un riconoscimento giuridico.
Permane, tuttavia, indubbiamente una netta distinzione tra la disciplina della famiglia matrimoniale e quella, invece, prevista per i conviventi non coniugati.
Questo breve excursus storico e normativo funge da necessario preambolo per trattare il tema del presente articolo ovvero le sorti delle attribuzioni patrimoniali nel contesto delle convivenze more uxorio e le problematiche che esse possono porre nel caso in cui la relazione affettiva cessi.
Preliminarmente bisogna distinguere però tra attribuzioni patrimoniali "istantanee", si pensi a quelle legate alle necessità quotidiane della famiglia, ed attribuzioni destinate a produrre effetti nel tempo o, addirittura, permanentemente.
Bisogna anche considerare, tuttavia, che non esiste una disposizione normativa simmetrica all'art. 143 c.c., specificamente dedicato ai coniugi, per le convivenze ovvero non c'è un obbligo giuridico di contribuire economicamente al menage familiare dei conviventi. Esiste, semmai, un dovere morale e sociale di contribuzione che viene usualmente ricondotto alle obbligazioni naturali.
A livello normativo tale figura viene codificata dall'art. 2034 c.c. con il quale si esclude la ripetizione delle obbligazioni adempiute in virtù di un dovere morale e sociale.
Quanto detto è molto importante in quanto, laddove si pongano problematiche di ripetizione delle attribuzioni patrimoniali svolte nel contesto delle coppie di conviventi non coniugati, bisognerà verificare se tali adempimenti sono irripetibili o meno.
Tradizionalmente la giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel ritenere irripetibili tali elargizioni almeno per ciò che concerne le attribuzioni con efficacia immediata.
I problemi sorgono semmai, e in tal senso sono affini a quelli posti per le coppie coniugate, nel caso in cui le attribuzioni siano destinate a produrre effetti duraturi o permanenti: si pensi al caso di un convivente che si faccia carico del mutuo di un immobile integralmente intestato all'altro partner oppure di chi dei due contribuisca economicamente alla costruzione di una casa sul terreno di proprietà dell'altro.
Cosa accade quando la convivenza cessa? C'è una tutela per il soggetto che ha posto in essere tali elargizioni?
Di queste problematiche se ne è occupata la Cassazione dapprima con una storica pronuncia con la quale si è inaugurato un filone giurisprudenziale ancora oggi consolidato[3].
In particolare la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che la convivenza, di per sé considerata, non basta ad escludere l'azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c. esperita una volta che sia cessata la convivenza. Il ragionamento offerto è stato il seguente: seppur le convivenze pongono un obbligo di contribuzione economica meramente morale e, dunque, l'attribuzione economica spontanea può ricadere nell'alveo delle obbligazioni naturali, irripetibili ex art. 2034 c.c., non ogni elargizione è sempre irripetibile. Specifica, infatti, la Corte che: "quando risulti - come nel caso all'esame - che le prestazioni rese da un convivente e convertite (in tutto o in parte) a vantaggio dell'altro esorbitano dagli indicati limiti di proporzionalità e adeguatezza, allora è configurabile una mera operazione economico-patrimoniale, comportante un ingiustificato arricchimento del convivente more uxorio con pregiudizio dell'altro".
In altri termini viene riconosciuto un certo margine di operatività all'art. 2041 c.c. dovendosi procedere ad un vaglio di merito circa i requisiti delle attribuzioni patrimoniali.
Tale orientamento viene confermato di recente in un'altra pronuncia della Cassazione[4] avente ad oggetto l'ipotesi della edificazione di una casa destinata a luogo di svolgimento della vita familiare e costruita con l'apporto economico di uno solo dei conviventi, ma su terreno di proprietà dell'altro.
La pronuncia assume una rilevanza duplice poiché, fermo restando l'applicabilità del principio superifices solo cedit, nega da un lato l'applicabilità della ripetizione di quanto versato ex art. 936 c.c. in quanto tale norma presuppone la terzietà di chi costruisce su suolo altrui, concetto che mal si concilia con un progetto di vita comune tipico della coppie, seppur non coniugate, ma legate da un vincolo affettivo e stabilmente conviventi. Dall'altro lato la pronuncia è assai rilevante perché consolida la precedente sentenza del 2009, riconoscendo, ancora una volta e al ricorrerne dei presupposti anzidetti, l'applicabilità dell'art. 2041 c.c..
Le pronunce citate sembrano, quindi, andare nella direzione di ammettere la ripetizione di quanto versato da un convivente laddove, una volta cessata la convivenza, si produca o permanga un vantaggio esclusivo a favore dell'altro partner sempreché tali esborsi eccedano i limiti di proporzionalità e adeguatezza che renderebbero altrimenti tali attribuzioni soggette all'art. 2034 c.c..
La ratio di tale orientamento, seppur non espressamente codificato dalla Cassazione, è probabilmente e secondo molti autori, quella che si rinviene nel diritto romano nella cosiddetta condicio indebiti ob causam finitam.
In altri termini: nel momento in cui la relazione affettiva sussiste, l'elargizione economica posta da uno solo dei conviventi ha una causa sottesa ben specifica rappresentata dal progetto di vita comune e dalla volontà di contribuire e godere insieme all'altro convivente dei vantaggi della attribuzione economica unilaterale.
Laddove sopraggiunga una causa di scioglimento del legame affettivo, poiché tale contribuzione è destinata a produrre effetti postumi allo scioglimento della relazione di coppia o addirittura permanentemente, ecco che allora la causa originariamente presente viene meno e di conseguenza l'elargizione ab origine casualmente fondata, finisce per divenire ingiustificata.
Poiché però essa continua a produrre un effetto positivo nella sola sfera patrimoniale dell'altro convivente-beneficiario, essa resta soggetta allo specifico rimedio dell'azione di ingiustificato arricchimento.
[1] Gli studiosi riportano una frase di Napoleone in sede di elaborazione del Codice Civile francese del 1804, secondo cui egli disse: "I conviventi fanno a meno della legge, la legge è disinteressata a loro";
[2] In particolare Corte Cost. sentenza n. 138/2010
[3] Corte di Cassazione sentenza n. 11330/2009
[4] Corte di Cassazione ordinanza n. 5086/2022