Cos'è il "carcere duro" (art. 41 bis)?
Da
qualche giorno è all'attenzione della cronaca il cosiddetto regime penitenziario di
"carcere duro" ex art.41-bis dell'ordinamento penitenziario,
introdotto dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663.
Il motivo scatenante l'attenzione dell'opinione pubblica e della politica per questa disciplina, è il caso di Alfredo Cospito, accusato di due attentati, e considerato il primo anarchico a cui è stato disposto il "carcere duro" lo scorso maggio, per la durata di quattro anni.
Ma che cosa è questo "carcere duro"?
Il carcere duro costituisce un rimedio introdotto con la legge 663/1986 (cosiddetta "legge Gozzini"), avente una finalità preventiva nei confronti di eventuali situazioni di pericolo che possono insorgere all'interno delle mura carcerarie.
Pensiamo ad esempio alla rivolta, alla prosecuzione dell'attività illecita di organizzazioni criminali, mafiose, eversive e, come è stato recentemente rilevato, alla infiltrazione di "cellule jihadiste" all'interno degli istituti penitenziari.
L'obiettivo è recidere i legami tra il detenuto e gli affiliati liberi, ma non vi è dubbio che la durezza dei rimedi adottati può indirettamente tradursi anche in uno strumento di pressione sul destinatario del provvedimento, tale da indurlo anche a collaborare con la giustizia.
Ai sensi dell'art. 41-bis, «In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto.»
In seguito alla strage di Capaci del 1992, il d.l. 306/1992, il cosiddetto "Decreto antimafia Martelli-Scotti", convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356 ha aggiunto a tale articolo un secondo comma, inoltre, a seguito di diverse novelle (la più incisiva delle quali risale al 2022) oggi tale norma prevede che i carcerati sottoposti al regime 41-bis siano rinchiusi in istituti dedicati o, comunque, siano collocati in sezioni separate dal resto della struttura.
Tale regime prevede una cella singola avente esclusivamente un letto, un tavolo e una sedia inchiodata a terra.
Non è consentita alcuna forma di privacy, poiché il carcerato è sorvegliato ininterrottamente dalla Polizia penitenziaria e i contatti sono ridotti al minimo indispensabile.
Le cure mediche sono però sempre garantite per cui, quando è indispensabile, il detenuto sottoposto a questo regime speciale può essere portato anche in ospedale.
L'applicazione di questo procedimento comporta, inoltre, le seguenti conseguenze:
- le visite, come le telefonate, sono ridotte nel numero di una, anziché sei, al mese e della lunghezza di un'ora, in luoghi attrezzati all'impedimento di passaggi di oggetti e senza possibilità di contatto fisico. Vi è l'obbligo del vetro divisorio che può essere evitato su decisione del giudice, ma soltanto in presenza di minori di 12 anni. I colloqui sono, inoltre, possibili solo con familiari e conviventi, salvo casi eccezionali, e anche l'avvocato difensore deve attenersi a queste regole;
- non è possibile ricevere oggetti dall'esterno;
- i detenuti interessati devono subire anche una limitazione del diritto alla corrispondenza, ad eccezione di quella con i membri del Parlamento o con ulteriori autorità nazionali o europee che hanno facoltà in materia di giustizia;
- la presenza all'aperto non può eseguirsi in gruppi più elevati di quattro persone e ha una durata non maggiore di due ore al giorno;
- la partecipazione alle udienze è esclusivamente "da remoto".