Art. 51 Codice Deontologico Forense: “La testimonianza dell’avvocato”

08.06.2024

L'art. 51 Codice Deontologico Forense – rubricato "La testimonianza dell'avvocato" - è collocato all'interno del Titolo IV, il quale a sua volta è rubricato "Doveri dell'avvocato nel processo". Tale Titolo, infatti, racchiude tutti quelli che sono gli obblighi gravanti sull'avvocato, sia nei confronti degli altri colleghi, che nei confronti dei magistrati e dei propri e altrui clienti.

Per comprendere appieno il significato di questa norma, è necessario passare in rassegna ogni singolo canone, sì da evidenziare i punti salienti sui quali merita compiere una riflessione.

Il canone primo dell'art. 51 Codice Deontologico Forense prescrive: "L'avvocato deve astenersi, salvo casi eccezionali, dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell'esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti".

Tale canone detta la regola generale in tema di testimonianza dell'avvocato: questi non può e non deve rivelare quanto appreso nell'esercizio della propria professione, assumendo le qualifiche di persona informata sui fatti o di teste, dovendo questi esercitare il c.d. "segreto professionale". All'interno del canone, tuttavia, si specifica "salvo casi eccezionali", ossia si fa riferimento ad un'eccezione, la quale può comportare una deroga alla regola generale appena descritta, meglio esplicitata nel terzo canone della medesima disposizione.

La Cassazione a Sezioni Unite è intervenuta in merito, precisando che "il Consiglio Nazionale Forense ha avuto modo di precisare che l'art. 51 codice deontologico forense tutela un bene giuridico ulteriore rispetto alla mera esigenza di non far conoscere all'esterno fatti personali, che l'avvocato difensore apprenda per ragioni legate all'esercizio della sua professione. L'art. 51 citato pone, infatti, anche un "irrinunciabile presidio" al rapporto che intercorre tra avvocato ed assistito, tale da impedire all'avvocato di divulgare e/o comunque adoperare in maniera scorretta informazioni che, a prescindere dal fatto che siano o no ancora sconosciute all'opinione pubblica, comunque non possono essere rivelate da chi, per doveri inerenti alla professione svolta, non può comunque rivelarle" (Cass. SU, 18.11.13, n. 25795), pronuncia con la quale ha meglio chiarito la portata della norma in generale e, soprattutto, l'applicabilità del canone poco sopra esaminato.

E ancora, sempre la Cassazione a Sezioni Unite ha precisato: "La norma deontologica [art. 51 Codice Deontologico Forense] va letta nel più complesso quadro della disciplina legislativa vigente, dettata - per quanto rileva in questa sede (trattasi di una deposizione testimoniale resa nell'ambito di un processo penale) - dalle norme del codice di procedura penale. Com'è noto, nel processo penale (come d'altra parte in ogni processo), la testimonianza costituisce un dovere per il cittadino. La persona chiamata a testimoniare acquista la qualità di "pubblico ufficiale" nel momento in cui il giudice, dopo aver valutato la richiesta della parte, abbia ritenuto la ammissibilità della prova ed abbia disposto la citazione del teste; tale qualità il testimone conserva prima, durante e dopo l'esame (Cass. pen., Sez. 6, n. 25150 del 03/04/2013; Cass. pen., Sez. 1, n. 15542 del 16/02/2001). L'ufficio di testimone comporta, per chi ne è onerato, l'obbligo di presentarsi dinanzi al giudice e l'ulteriore obbligo di "rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte" (art. 198 c.p.p.); onde il testimone che "afferma il falso o nega il vero, ovvero tace in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato" si rende responsabile del delitto di cui all'art. 372 c.p., punito con la reclusione da due a sei anni. L'art. 200 c.p.p., prevede, tuttavia, che alcuni soggetti che ricoprono particolari uffici o esercitano particolari professioni, tra i quali gli avvocati, non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del loro ufficio o professione, riconoscendo così ad essi la facoltà di opporre il "segreto professionale" e di essere esentati dall'obbligo di deporre; pur spettando al giudice il potere di sindacare l'opposizione del segreto professionale da parte del testimone e, ove tale opposizione risulti infondata, di ordinare allo stesso di deporre (Cass. pen., Sez. 6, n. 7440 del 10/01/2017; Cass. pen., Sez. 2, n. 13369 del 07/01/2011). Sia l'art. 200 del codice di rito penale che la richiamata disposizione del codice deontologico stabiliscono, dunque, che il segreto professionale dell'avvocato vale solo ed esclusivamente con riferimento alle circostanze di fatto apprese nell'esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto" (Cass. SU, 25.09.17, n. 22253).

La medesima disciplina relativa agli avvocati, si applica anche ai praticanti avvocati, i quali sono tenuti al rispetto del segreto professionale per quanto riguarda i fatti conosciuti nell'ambito dell'esercizio del proprio tirocinio.

In forza del secondo canone: "L'avvocato deve comunque astenersi dal deporre sul contenuto di quanto appreso nel corso di colloqui riservati con colleghi nonché sul contenuto della corrispondenza riservata intercorsa con questi ultimi".

Tale previsione vuole sottolineare l'importanza che il difensore, in ragione della professione svolta, mantenga la riservatezza su quanto saputo in virtù di discussioni avvenute con i propri colleghi, con particolare attenzione a quanto appreso mediante lo scambio di mail o tramite colloqui, anche telefonici, con i suddetti: le informazioni ottenute tramite corrispondenza non devono essere diffuse, in quanto inerenti questioni delicate e anche in ragione del fatto che altrimenti verrebbero diffusi dati sensibili relativi ai propri clienti, cosa che l'avvocato deve guardarsi bene dal fare, data l'attività prestata.

Il canone terzo dispone: "Qualora l'avvocato intenda presentarsi come testimone o persona informata sui fatti non deve assumere il mandato e, se lo ha assunto, deve rinunciarvi e non può riassumerlo".

Come già anticipato poco sopra, questo canone specifica quali sono i casi eccezionali, citati nel primo canone, rispetto ai quali il difensore può assumere la qualifica di teste o anche di persona informata sui fatti, ossia quelli in cui non ha prestato la propria attività professionale o quelli in cui – pur avendola prestata -, vi abbia poi rinunciato, consapevole del fatto che non potrà più rappresentare quel dato soggetto.

Sul punto è intervenuto il Consiglio Nazionale Forense con la pronuncia n. 15 del 27.04.06, secondo cui "ai sensi dell'art. 58 c.d.f. (ora 51), è rimessa al prudente apprezzamento dell'avvocato la scelta di assumere o meno la veste di testimone in un giudizio civile i cui fatti gli siano noti, con l'obbligo, in caso positivo, di rinunciare al mandato difensivo senza più poterlo riassumere e curando di evitare che oggetto della testimonianza siano circostanze di fatto ed elementi di difesa da considerarsi coperti dal dovere di segretezza, in guisa che non venga arrecato pregiudizio alla parte rappresentata".

Altresì, la Cassazione penale ha ribadito: "Non sussiste l'incompatibilità a testimoniare del legale che, dopo aver dismesso l'ufficio di difensore dell'imputato e senza aver compiuto atti di investigazione difensiva nell'interesse di quest'ultimo, abbia assunto, nello stesso procedimento, la veste di testimone, né le dichiarazioni rese dallo stesso sono inutilizzabili, poiché la scelta di non opporre il segreto professionale rileva, eventualmente, soltanto sotto un profilo deontologico" (Cass., 28,03.17, n. 22954. Nello stesso senso, Cass., 27.02.13, n. 15003; Cass., 20.09.12, n. 8756; Cass., 01.07.10, n. 26861; Cass., 05.02.10, n. 16255; Cass., 11.02.09, n. 9866), ponendo in evidenza con estrema chiarezza quanto affermato sopra.

L'ultimo canone, il quarto, tipicizza quelle che sono le sanzioni conseguenti la violazione di questa disposizione: "La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della censura", la quale consiste nel biasimo formale e si applica quando la gravità dell'infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti del difensore e il suo comportamento successivo al fatto inducono a ritenere che egli non incorrerà in un'altra infrazione.

Alla luce di quanto affermato, è possibile concludere che un avvocato non può essere nello stesso procedimento difensore e testimone/persona informata sui fatti rispetto al proprio cliente, in quanto con tale comportamento violerebbe l'art. 51 canone 3 Codice Deontologico Forense, canone che prevede certamente una deroga alla regola generale, espressa all'interno del primo canone della medesima disposizione, ma che, comunque, non permette all'avvocato di testimoniare in maniera indiscriminata, dovendo egli invece tenere il comportamento poco sopra enunciato.

Avv. Laura Giusti