Concordare non vuol dire patteggiare: analogie e differenze tra gli istituti di cui agli artt. 444 e 599-bis c.p.p.

13.04.2022

Con la Legge n. 103/2017 (cosiddetta Riforma Orlando) il legislatore ha colto l'occasione per reintrodurre un istituto precedentemente abrogato[1]: il concordato anche con rinuncia ai motivi di appello, di cui all'art. 599-bis c.p.p. Tale istituto viene comunemente chiamato nella prassi "patteggiamento in appello". Ma quanto può ritenersi corretta tale denominazione? Infatti, si potrebbe incorrere nel rischio di considerare l'istituto di cui all'art. 599-bis c.p.p. una mera riproduzione, nel grado di appello, del patteggiamento esperibile in primo grado[2]. Se è vero che i due istituti presentano delle somiglianze, le differenze sono ben più numerose e consistenti.

Partendo dalle analogie, entrambi gli istituti presentano una natura deflattiva. La comune finalità perseguita dal legislatore è stata quella di alleggerire il carico giudiziario ed evitare il congestionamento delle aule di tribunale. Infatti, il patteggiamento permette l'elisione del dibattimento di primo grado, con forti limitazioni alla esperibilità dei mezzi di impugnazione. In relazione invece al concordato, si evitano le lungaggini della fase del dibattimento in appello.

Ulteriore elemento in comune è l'esistenza di un sostrato negoziale, rappresentato da un accordo tra imputato e Pubblico Ministero. Né si può ritenere che tale dato venga escluso dall'intervento successivo del giudice, il quale interviene in funzione di controllo.

Infine, con la riforma Orlando il legislatore ha optato per un affiancamento dei due istituti dal punto di vista delle preclusioni oggettive e soggettive alla loro esperibilità. Infatti, come nelle ipotesi di cui all'art 444, comma 2, c.p.p. non si può accedere al patteggiamento allargato, così nelle medesime ipotesi non si può ricorrere al concordato in appello[3].

Sebbene esistano le suddette analogie, tuttavia la consistenza delle differenze non può che portare alla seguente conclusione: se proprio si vuole considerare i due istituti come parenti, al massimo lo sono alla lontana[4]!

Bisogna innanzitutto partire dal seguente dato, per quanto possa apparire banale. Il patteggiamento interviene prima ancora che si sia svolto un dibattimento di primo grado; diversamente, il concordato interviene in un momento in cui già è stata emessa una sentenza di condanna di primo grado. Di conseguenza, mentre il giudice del patteggiamento fonda il proprio controllo sugli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero, il giudice del concordato si basa tanto sulla sentenza di primo grado, quanto su quanto contenuto nel fascicolo del dibattimento[5].

Seconda differenza (questa volta di non poco conto) attiene al fatto che l'istituto di cui all'art. 599-bis c.p.p. non presenta alcuna natura premiale. La presenza di questi benefici è invece ciò che caratterizza il rito del patteggiamento, tanto nella sua forma semplice quanto in quella allargata. Tra tutti, in particolare, spicca la possibilità di ottenere una riduzione della pena fino alla misura massima di un terzo[6]. Nulla di tutto ciò è previsto per il concordato. Infatti, anche l'eventuale diminuzione di pena non rappresenta una conseguenza diretta della scelta di concordare su alcuni motivi con eventuale rinuncia agli altri, ma un effetto riflesso dovuto all'accoglimento dei motivi non rinunciati[7].

Ulteriore differenza la si rinviene sul piano processuale, in ordine alla incompatibilità del giudice che rigetti la richiesta avanzata di comune accordo dalle parti. Infatti, la Corte costituzionale è intervenuta sull'art. 39 c.p.p., laddove non si prevedeva l'incompatibilità del giudice dell'udienza preliminare e del dibattimento che rigettino la richiesta di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. Diversamente, le pronunce del giudice costituzionale non hanno ancora esteso le medesime conseguenze al giudice dell'appello che rigetti il concordato sui motivi di impugnazione[8].

Diversa è anche la portata del sindacato del giudice circa la scelta se accogliere o rigettare la proposta avanzata di comune accordo dalle parti. In particolare, l'art. 444 c.p.p. prevede espressamente due diverse categorie di valutazioni, la prima di stampo negativo, la seconda di stampo positivo. Da un lato, il giudice del patteggiamento deve valutare l'inesistenza delle condizioni di cui all'art. 129 c.p.p. per pronunciare una sentenza immediata di proscioglimento. Dall'altro lato, deve verificare la correttezza della qualificazione giuridica del fatto fornita dalle parti, l'applicazione e la comparazione delle circostanze nonché la congruità della pena[9]. Al contrario, l'art. 599-bis c.p.p. si limita apoditticamente a stabilire che il giudice ordina la citazione «se ritiene di non poter accogliere, allo stato, la richiesta». La formulazione letterale suggerisce che in tale sede la discrezionalità del giudice è più libera, potendo anche limitarsi a rilevare l'infondatezza dei motivi concordati[10].

Infine, l'elemento più significativo della diversa natura dei due istituti attiene ai rimedi. Il legislatore è stato particolarmente attento nell'individuare gli strumenti correttivi di un illegittimo diniego del Pubblico Ministero o di un illegittimo rigetto del giudice alla richiesta di applicazione pena. Altrettanto non è previsto per il concordato, nel caso rispettivamente di diniego del Pubblico Ministero[11] o di rigetto del giudice di appello[12]. In assenza di specifiche previsioni, la giurisprudenza consolidata ritiene che non esista alcun rimedio esperibile avverso tali comportamenti o provvedimenti.

Alla luce di quanto finora illustrato, le differenze tra i due istituti sono a tal punto rilevanti da escludere una loro equiparazione e sovrapposizione. Di conseguenza, sarebbe più opportuno fuggire semplificazioni lessicali che, invece di facilitare la comprensione delle rispettive discipline, inducono a cadere in errori ed equivoci.

Dott. Marco Misiti


[1] Per un approfondimento sulle travagliate vicende storiche che hanno interessato tale istituto si rinvia a F. Giunchedi, Il concordato anche con rinuncia ai motivi di appello, in La riforma delle impugnazioni penali. Semplificazione, deflazione, restaurazione.

[2] Per un approfondimento sulla complessa e problematica natura della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti si rinvia a C. Fontani, Patteggiamento su dissenso del P.M.: conseguenze sul processo, in Diritto penale e processo, n. 7/2018.

[3] L'unica differenza circa le preclusioni soggettive attiene alla mancata indicazione al caso di dichiarazione della recidiva di cui all'art. 99, comma 4, c.p. nell'art. 599-bis c.p.p. Si deve inoltre evidenziare come il concordato con rinuncia ad eventuali motivi in appello non prevede limiti circa la pena irrogabile in concreto, diversamente da quello che è stabilito in relazione al patteggiamento.

[4] Parla di un «improprio accostamento al patteggiamento previsto in primo grado» F. Giunchedi, Il concordato, cit. Tale equivoco aveva portato il legislatore, con la Legge 125/2008, ad abrogare il concordato in quanto mera reiterazione del patteggiamento in primo grado. Di conseguenza, secondo questa ricostruzione, si disincentivava il ricorso al rito alternativo di cui agli artt. 444 ss. c.p.p. Parla invece di «nature [...] nettamente distinte» N. Pasucci, Il ritorno del concordato sui motivi di appello, tra esigenze processuali e timori di malfunzionamento, in Diritto penale contemporaneo, n. 11/2017. Infine, si esprime nel senso della sussistenza di un «equivoco con l'applicazione della pena» A. A. Marandola, Prime riflessioni sul "nuovo" giudizio d'appello, in Diritto penale contemporaneo, n. 2/2018. La diversa natura dei due istituti viene attualmente sostenuta anche dalla giurisprudenza. In particolare, ex multis, si veda Cass. pen., sez. VII, ord. 20 maggio 2021, n. 20085, secondo la quale «i due "patteggiamenti" non sono affatto omogenei». Infatti, come si vedrà nel prosieguo del contributo, il concordato non presenta alcuna natura premiale.

[5] In tal senso si esprime F. Giunchedi, Il concordato, cit., secondo il quale «la cartina di tornasole di quanto appena affermato è costituita dalla possibilità di poter esperire un accordo sui motivi concernenti la responsabilità che tenga in considerazione le prove assunte nel giudizio di primo grado».

[6] Gli effetti premiali relativi al patteggiamento sono molteplici, e dipendono dall'entità della pena su cui imputato e Pubblico Ministero hanno raggiunto l'accordo. In particolare, se la pena è minore o uguale a due anni, non vi è condanna al pagamento delle spese processuali, applicazione di pene accessorie e misure di sicurezza diverse dalla confisca, oltre alla possibilità di ottenere l'estinzione di ogni effetto penale se nei cinque anni o due anni successivi, a seconda che si tratti rispettivamente di delitto o contravvenzione, l'imputato non commette ulteriori reati della stessa indole. A tali benefici si aggiunge, in comune con quanto previsto nei casi in cui la pena patteggiata sia superiore a due anni ma inferiore a cinque, l'impossibilità per la sentenza di patteggiamento di produrre effetti di giudicato negli ulteriori procedimenti civili e amministrativi, ad esclusione di quelli disciplinari.

[7] Sul punto, si veda A. Macchia, Le novità dell'appello: rinnovazione dell'appello, concordato sui motivi, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org, secondo il quale «le conseguenze sulla pena rappresentano una "risultante" del concordato sui motivi».

[8] Si veda sul punto Corte cost., sent. 24 ottobre 1995, n. 448, seppure vertente sulla vecchia formulazione del concordato sui motivi in appello. Le argomentazioni sono tuttavia riprese dalla recente giurisprudenza di legittimità per ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sul punto. A proposito, si veda Cass. pen., sez. II, sent. 4 marzo 2020, n. 8745. Ancora, si veda anche Cass. pen., Sez. IV, sent. 15 aprile 2019, n. 16195.

[9] Per un approfondimento sulla portata del sindacato operabile dal giudice in sede di tale rito alternativo si rinvia a V. G. Foci, La funzione giurisdizionale esercitata dal giudice del patteggiamento, in Diritto penale e processo, n. 4/2011.

[10] In ordine alle differenze sulla portata del sindacato del giudice nei casi di patteggiamento e concordato, orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità esclude che il giudice in sede di controllo del concordato debba espressamente motivare sulla assenza delle cause ex art. 129 c.p.p. In particolare, si vedano Cass. pen., sez. V, sent. 6 aprile 2018, n. 15505; sez. IV, sent. 23 novembre 2018, n. 52803; sez. II, sent. del 20 maggio 2019, n. 22002.

[11] Si veda sul punto Cass. pen., sez. II, sent. 3 marzo 2021, n. 8605, secondo la quale «mentre per il rito alternativo disciplinato dall'art. 444 cod. proc. pen. il parere negativo del pubblico ministero è "revisionabile" dal Tribunale (art. 448 comma 1 cod. proc. pen.), il concordato sulla pena che interviene solo in appello, quando si è già sviluppato il primo grado di giudizio, è sottoposto alla imprescindibile condizione dell'"accordo" tra pubblico ministero ed imputato, senza che sia previsto alcun rimedio in caso di diniego espresso da una delle parti».

[12] Si veda sul punto Cass. pen., sez. VII, ord. 20 maggio 2021, n. 20085, per la quale «il diniego del consenso da parte del pubblico ministero o il rigetto della proposta di concordato da parte della Corte di appello sono passaggi procedurali non sottoposti ad alcuna forma di controllo processuale che, ove fosse previsto, complicherebbe la procedura, invece che semplificarla». È stato inoltre precisato in Cass. pen., sez. II, sent. 4 marzo 2020, n. 8745, che «qualora il giudice di appello ritenga di non accogliere la richiesta concordata delle parti sulla misura della pena, con rinunzia agli altri motivi, non deve esplicitare le ragioni del rigetto, essendo sufficiente l'ordine di prosecuzione del dibattimento».