Le false dichiarazioni per l’ottenimento del reddito di cittadinanza costituiscono reato?
Cass. pen., Sez. III, 20 gennaio 2023 n. 2588
La terza sezione penale della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione: se si perfezioni il reato di cui all'art. 7, D.L. 28 gennaio 2019, n. 4 (convertito con modificazioni nella L. 28 marzo 2019, n. 26) qualora il richiedente il reddito di cittadinanza riporti all'interno dell'istanza false dichiarazioni sulla propria condizione patrimoniale oppure ometta informazioni rilevanti circa la propria situazione reddituale, pur se non strumentalmente collegate al superamento delle soglie tassativamente indicate dalla legge al fine del riconoscimento del beneficio.
Stando agli articoli 2 e 3 della normativa che regola il reddito di cittadinanza, il D.L. n. 4, del 28 gennaio 2019 (convertito con modificazioni nella L. 26/2019), questa misura economica-assistenziale è concessa a chi è cittadino italiano, residente nel territorio dello Stato e rispetti il requisito oggettivo di avere un valore reddituale inferiore alle somme prefissate in relazione all'indicatore ISEE, il quale tiene conto anche del numero dei componenti del nucleo familiare e della presenza di membri disabili.
L'articolo 7 del D.L. 4/2019 stabilisce che chiunque, al fine di percepire indebitamente il reddito di cittadinanza, "rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni."
Il comma 2 del medesimo articolo aggiunge che "l'omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all'art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11, è punita con la reclusione da uno a tre anni".
L'interpretazione di questo articolo ha dato origine ha due differenti filoni giurisprudenziale e spetterà agli ermellini delle Sezioni Unite pronunciarsi su quale sia l'orientamento da seguire.
Secondo un primo indirizzo, il richiedente beneficiario perfeziona il delitto di falso di cui all'art. 7 della normativa di riferimento qualora falsamente alleghi, o ometta, l'indicazione dei personali dati reddituali all'interno della dichiarazione presentata per l'ottenimento del reddito di cittadinanza, anche qualora si tratti di informazioni reddituali necessarie per l'ottenimento della misura economica. Questo orientamento è stato sostenuto per la prima volta dalla Corte di Cassazione, sez. penale, all'interno della pronuncia n. 5289/2019, che richiama il generale principio antielusivo legato alla capacità contributiva di cui all'art. 53 della Costituzione, declinazione del più generale principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione. Secondo questa lettura, il dovere di trasparenza e leale cooperazione alla base del rapporto tra le istituzioni e il cittadino, a cui non è lasciata la scelta tra cosa dichiarare e cosa omettere, emerge anche dai successivi commi dell'articolo 7 del D.L. 4/2019, che disciplinano i casi di revoca, decadenza e sanzioni amministrative in caso beneficio ottenuto indebitamente.
Altro orientamento più restrittivo, invece, in via opposta, ha affermato che, affinchè il reato di falso si perfezioni, le dichiarazioni mendaci, o omesse, del privato devono essere strettamente collegate alla concessione del reddito di cittadinanza.
Questo orientamento, più recente, è stato avallato dalla III sezione penale nella pronunzia n. 44366 del 15 settembre 2021, tramite un raffronto con la ratio che regola l'applicazione dell'art. 95 del D.P.R. n. 115 del 2002, la normativa in materia di ammissione al patrocinio giudiziario a spese dello Stato dei soggetti non abbienti, che, infatti, è presa a modello dall'altro filone giurisprudenziale. Mentre il D.P.R. del 2002 contempla la consapevolezza e volontà di rendere una falsa dichiarazione, la norma sul reddito di cittadinanza richiede che attraverso la condotta penalmente rilevante si sia perseguito il fine di accedere "indebitamente" ad un beneficio.
Proprio l'espresso utilizzo dell'avverbio fa riferimento "non tanto ad una volontà dell'agente di accesso al beneficio messa in atto non iure, cioè in assenza degli elementi formali che avrebbero consentito l'erogazione, quanto ad una volontà diretta ad un conseguimento di esso contra jus, cioè in assenza degli elementi sostanziali per il suo riconoscimento".
Naturalmente, propendere per l'uno o l'altro orientamento determina connotazioni del reato di chi vuole beneficiare dell'emolumento completamente differenti. Secondo la prima lettura dell'art. 7 D.L. 4/2019, il reato sarebbe di pericolo presunto e la fattispecie sarebbe caratterizzata dal dolo generico, mentre stando all'altro orientamento, il reato a pericolo concreto è caratterizzato dal dolo specifico che, dunque, richiede quale ulteriore elemento per il suo perfezionamento l'indebito arricchimento dell'agente.
Questa seconda interpretazione sembra preferibile all'altra dato che, altrimenti, la sussistenza del semplice dolo generico della predisposizione sic et simpliciter di un'autodichiarazione mendace, oltre a non attenersi al dato letterale della norma, assorbe anche le ipotesi del falso "grossolano", che esclude una sostanzialevariazione dello stato di fatto, ovvero del "falso innocuo" ricorrente quando, secondo un giudizio da svolgersi ex ante, non v'era alcuna possibilità di offendere l'interesse protetto della fede pubblica, e lascia aperti margini di incertezza in tema di prova in caso di negligenza dell'agente, non essendo contemplato dall'ordinamento vigente il falso documentale colposo.
Attenersi al primo orientamento analizzato
comporterà un rigetto del ricorso, mentre nel secondo caso le Sezioni Unite
annulleranno la pronuncia impugnata e sarà necessario l'accertamento da parte
del A.A. di merito sull'accesso da parte dell'imputato, indipendentemente dai
dati omessi nell'autodichiarazione, al reddito di cittadinanza.