Il giudice dell'esecuzione puo' concedere i benefici di legge dopo la riduzione di pena per mancata impugnazione nel rito abbreviato
C. Cost., 19 dicembre 2024, n. 208
A cura di Dott. Marco Misiti
Con sentenza del 19 dicembre 2024, n. 208, la Corte costituzionale ha decretato la contrarietà alla Carta costituzionale degli artt. 442, comma 2-bis, e 676, comma 3-bis, c.p.p. Tale incostituzionalità è stata dichiarata nella parte in cui tali disposizioni non consentono al giudice dell'esecuzione di concedere i benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p. qualora i presupposti di pena siano maturati a seguito della riduzione applicata per la mancata impugnazione della sentenza di condanna emessa ad esito del giudizio abbreviato.
Tale pronuncia assume una particolare rilevanza non solo per il contenuto del principio stabilito, ma anche per essersi posta in contrapposizione con due recenti pronunce della Prima Sezione penale della Corte di cassazione, le quali avevano invece negato l'esistenza di tale potere in capo al giudice dell'esecuzione.
Nel giudizio a quo pendente dinanzi al Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Nola un soggetto, condannato al termine del giudizio abbreviato alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione e 800,00 euro di multa, presentava istanza in sede esecutiva per l'applicazione della diminuzione di un sesto della pena per non aver impugnato la sentenza di condanna emessa ad esito del predetto rito speciale, ai sensi dell'art. 442, comma 2-bis, c.p.p. Tenuto conto che a seguito della predetta riduzione la pena sarebbe risultata nei limiti per ottenere i menzionati benefici, il condannato chiedeva contestualmente il loro riconoscimento.
Nell'ordinanza di rimessione il giudice a quo afferma che l'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., come novellato dalla Riforma Cartabia, è irragionevole sotto due diversi punti di vista:
- in relazione alla funzione rieducativa della pena, perseguita dalla sospensione condizionale e dalla non menzione della condanna, poiché non consente a priori né al giudice della cognizione né al giudice dell'esecuzione di concedere i predetti benefici nonostante la sussistenza dei presupposti di pena. Il trattamento sanzionatorio diventa così sproporzionato e in contrasto con la necessità di individualizzazione della pena, ai sensi degli artt. 3, 27, commi primo e terzo, Cost.;
- in relazione alla ragionevole durata del processo, obiettivo perseguito dalla stessa Riforma Cartabia, in quanto aggrava il carico giudiziario della magistratura di sorveglianza, tenuto conto che, stante il quantum di pena, il trattamento sanzionatorio si sarebbe verosimilmente svolto con modalità extracarcercarie. Il contrasto si realizza, pertanto, con gli artt. 111, 117, primo comma, Cost., quest'ultima in relazione all'art. 6 della CEDU.
Per quanto attiene all'ammissibilità della questione, il Giudice per le indagini preliminari precisa che non è possibile effettuare una interpretazione costituzionalmente conforme che consenta al giudice dell'esecuzione di concedere i menzionati benefici. Infatti, tale interpretazione sarebbe, di fatto, un'applicazione analogica dell'art. 671, comma 3, c.p.p., norma che prevede il potere del giudice dell'esecuzione di riconoscere la sospensione condizionale e la non menzione nelle sole ipotesi di applicazione della continuazione tra reati o del concorso formale. La disposizione da ultimo citata è una eccezione alla regola generale della immodificabilità/intangibilità del giudicato e, pertanto, l'art. 671, comma 3, c.p.p. non sarebbe suscettibile di applicazione analogica per quanto previsto nell'art. 14 delle Disposizioni preliminari al Codice civile.
Nella sentenza in esame il giudice delle leggi condivide[1] le argomentazioni del giudice a quo, in parte sviluppandole.
Invero, osserva la Corte costituzionale, la diminuzione di pena prevista dall'art. 442, comma 2-bis, c.p.p. non è dissimile ad analoghi meccanismi previsti per scelte processuali individuali, come avviene per la scelta del rito abbreviato ai sensi dell'art. 444, comma 2, c.p.p. Inoltre, escludere un simile potere in capo al giudice dell'esecuzione, oltre che porsi irragionevolmente in contrasto con la finalità rieducativa della pena, determinerebbe una stortura sulla ragionevole durata del processo non solo in sede di sorveglianza, ma già in quella di cognizione. Infatti, se non si potesse ottenere la sospensione condizionale e la non menzione della condanna in sede esecutiva, tutti i condannati in abbreviato impugnerebbero la sentenza ricorrendo poi allo strumento del concordato anche con rinuncia ai motivi di appello di cui all'art. 599-bis c.p.p.
Come preannunciato, la sentenza della Corte costituzionale si pone in contrapposizione con la posizione assunta dalla Prima Sezione penale della Corte di cassazione nelle sentenze del 17 luglio 2024, n. 28917, e del 15 ottobre 2024, n. 37899. Nella prima sentenza la difesa chiedeva di sollevare una questione di legittimità costituzionale che, però, è stata ritenuta manifestamente infondata. Nella seconda pronuncia richiamata, pur non avendo la difesa richiesto al giudice di legittimità di sollevare questione di legittimità costituzionale, si lamentavano comunque possibili frizioni con la Carta costituzionale.
Le ragioni principali per cui la Suprema Corte ha ritenuto non condivisibili le prospettazioni difensive si identificano nella natura strettamente processuale della riduzione di pena in esame, oltre che nella circostanza che al giudice dell'esecuzione non è attribuito alcun potere discrezionale sulla diminuzione, secondo una previsione che possa ritenersi analoga al meccanismo previsto dall'art. 671 c.p.p.
In più, nella sentenza n. 37899 si precisa che la citata diminuzione di pena non costituisce un «novum sopravvenuto, idoneo a incidere sull'ammissibilità della valutazione che avrebbe dovuto farsi se esso fosse maturato in sede cognitiva». Infatti, secondo il giudice di legittimità, «resta il dato di fatto che il giudice della cognizione, avendo irrogato una pena detentiva superiore ai limiti fissati dall'art. 163 cod. pen., non aveva, in radice, la possibilità giuridica di formulare la valutazione prognostica di cui all'art. 164 cod. pen.».
Tali posizioni sono ormai da ritenersi superate alla luce della sentenza della Corte costituzionale in esame.
[1] L'unico profilo rispetto al quale la Corte costituzionale si pone in contrasto con il giudice rimettente attiene all'impossibilità di effettuare una interpretazione costituzionalmente conforme. Il giudice delle leggi ritiene che la giurisprudenza di legittimità abbia nel tempo ampliato le ipotesi in cui il giudice dell'esecuzione possa riconoscere la sospensione condizionale della pena pur in assenza di un appiglio normativo. Pertanto, «tra i poteri del giudice dell'esecuzione […] rientra il potere di effettuare ogni valutazione conseguente alla rideterminazione della pena irrogata nella sentenza irrevocabile, a sua volta imposta dalle disposizioni di legge di volta in volta rilevanti». Ciononostante, la presenza di alcune pronunce della Corte di cassazione di segno contrario ha indotto la Corte costituzionale a dichiarare incostituzionale gli artt. 442, comma 2-bis, e 676, comma 3-bis, c.p.p.