Il convivente di fatto è a tutti gli effetti un familiare: la nuova pronuncia della Corte Costituzionale

06.08.2024

C. Cost. n. 148 del 25 luglio 2024

Quella del 25 luglio è stata una sentenza storica destinata a mutare per sempre l'idea di "convivente di fatto" fino ad ora avuta.

Con l'ordinanza del 18 gennaio 2024, la Corte di Cassazione ha sollevato delle questioni di legittimità costituzionale relativamente agli artt. 2,3,4,35 e 36 della nostra Costituzione, all'art.9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, e all'art.117 co.1 della Costituzione in relazione agli artt.8 e 12 CEDU, ed in ultimo, in relazione all'art.230-bis co.1 e 3 c.c. laddove non include il convivente di fatto nel novero dei familiari, e dell'art.230-ter c.c. che non fornisce una piena tutela, come accade per il familiare, al convivente di fatto che presta la propria opera nell'impresa del convivente.

In special modo, con riferimento al fatto di specie, venivano sollevate questioni nell'ambito di un giudizio instaurato da parte ricorrente nei confronti dei figli dell'ex convivente ormai deceduto, in cui adduceva di aver convissuto stabilmente fino all'anno del decesso dell'uomo, avvenuto nel 2012, chiedendo l'accertamento dell'esistenza di un'impresa di famiglia e di condannare parte resistente alla liquidazione della quota spettante come partecipante all'impresa.

Il Tribunale di Fermo, tuttavia, aveva ritenuto di rigettare la domanda adducendo come motivazione che il convivente di fatto, non si poteva ritenere "familiare" ai sensi dell'art.230-bis co.3 c.c.; in appello, la Corte d'Appello di Ancona confermava il rigetto fondando la propria decisione sull'identico presupposto ex art.230-bis co.3 c.c., aggiungendo l'impossibilità di applicare l'art.230-ter c.c. poiché "Il rapporto di convivenza era cessato prima dell'entrata in vigore della L.n. 76 del 26 maggio 2016, che, con l'aggiunta del suddetto articolo, aveva in parte esteso ai conviventi la disciplina dell'impresa familiare".

In terzo grado, la Corte di Cassazione ha chiesto, tramite ordinanza interlocutoria, l'intervento della Corte Costituzionale per chiarire "Se l'art.230-bis co.3 c.c. potesse essere evolutivamente interpretato – in considerazione del mutamento dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso – in chiave di esegesi orientata agli artt. 2,3,4 e 35 Cost., nonché all'art.8 CEDU, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da stabilità".

La Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibili le questioni sollevate facendo una disamina dei mutamenti legislativi in materia di famiglia che si sono susseguiti dal 1975 ad oggi, anche relativamente al lavoro prestato dai familiari nell'impresa familiare volti ad evitare situazioni di sfruttamento.

In particolare, in relazione alla convivenza di fatto, rilevanza è stata fornita anche all'evoluzione della società che presenta una maggioranza delle coppie non sposate rispetto a quelle unite in Matrimonio e alle varie forme di tutela ad essa riconosciuta, ritenendo che vi sia stata un'evoluzione sia della giurisprudenza nazionale che internazionale che "ha dato piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto", e che, pertanto, fa sì che il convivente more uxorio, anche nel lavoro prestato nell'impresa familiare, è meritevole della stessa tutela spettante al coniuge.

Per tali ragioni, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità dell'art.230-bis co.3 c.c., nella parte in cui non prevede come familiare il convivente di fatto e come impresa familiare, quella in cui lo stesso presta la propria opera, "pertanto ai sensi dell'art.27 della L.n.87 dell'11 marzo 1953 la dichiarazione di illegittimità costituzionale va stata estesa in via conseguenziale all'art.230-ter c.c., che fornisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro "nella famiglia", del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all'accoglimento della questione sollevata in riferimento all'art.230-bis cod.civ".

Dott.ssa Martina Carosi