Il suicidio assistito dopo la Sentenza della Corte Costituzionale n. 135/2024

26.09.2024

C.Cost. 18 Luglio 2024,n. 135

Con la recentissima Sentenza del 18 luglio 2024, n. 135,la Corte Costituzionale si è nuovamente pronunciata sul suicidio assistito, superando parzialmente le conclusioni cui era approdata con la decisione n. 242 del 2019 (c.d. "Caso DJ Fabo").

La pronuncia origina dalle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale di Firenze in ordine al reato di cui all'art. 580 c.p., così come modificato a seguito della parziale declaratoria di incostituzionalità, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola il suicidio alla condizione che l'aiuto sia rivolto ad un soggetto tenuto in vita da "trattamenti di sostegno vitale", per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 Cost. (quest'ultimo letto alla luce degli artt. 8 e 14 CEDU).

Nel caso di specie, la persona determinatasi a ricorrere alla procedura di suicidio assistito era affetta da sclerosi multipla e, pienamente capace di esprimere validamente il proprio consenso e privo di supporti meccanici, si rivolgeva ad un'associazione affinché il suo fondatore ed altri due soggetti lo accompagnassero in una struttura Svizzera. Il paziente, attraverso uno dei suoi arti superiori ancora in uso, assumeva il farmaco letale per via orale, determinando la morte dopo qualche minuto.

Il Giudice remittente, ritenendo le condotte di tali soggetti penalmente rilevanti ex art. 580 c.p. – non ravvisandosi il requisito della dipendenza da "trattamenti di sostegno vitale", espressamente ritenuto necessario dalla Corte Costituzionale ai fini della causa di non punibilità introdotta con la pronuncia del 2019 – evidenziava i dubbi di legittimità costituzionale dell'anzidetto requisito in relazione all'art. 3 Cost., venendosi a creare un'irragionevole disparità di trattamento tra situazioni sostanzialmente identiche, agli artt. 2, 13 e 32, co. II Cost., traducendosi in una compressione della libertà di autodeterminazione del malato nel ricorso alle terapie, ed all'art. 117 Cost. (per violazione degli artt. 8 e 14 CEDU), realizzandosi un'interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare contrastante con la tutela del bene vita.

Al fine di meglio comprendere gli approdi della Corte Costituzionale, è necessario ripercorrere brevemente le tappe evolutive della tematica.

Già con le prime pronunce sui casi Englaro e Welby (e, quindi, ancor prima dell'introduzione della Legge sul "fine vita" del 2017) la Consulta aveva riconosciuto il diritto del paziente a rifiutare le cure, anche in caso di trattamenti sanitari necessari alla sua sopravvivenza. Pacifico il diritto di rifiutare le cure "salva-vita", si è venuta a creare una "scriminante procedurale" per il medico che, assecondando la volontà del paziente nell'interruzione del trattamento, di fatto ne determini la morte, pur non essendo tale interpretazione condivisa da tutti. Invero, se da una parte si è sostenuto che, al rispetto delle condizioni prescritte dalla L. n. 219/2017 al fine di verificare l'effettività della volontà espressa dal paziente sull'interruzione del trattamento salvavita, la condotta del medico venga scriminata – trovando fondamento nell'art. 51 c.p., essendo al contrario illecita la scelta del medico che, dinnanzi all'espresso consenso del paziente, si rifiuti ed imponga allo stesso di sottoporsi alle cure – dall'altro un diverso orientamento ritiene che la condotta del medico difetti della tipicità, essendo omissiva, atteso che l'agente si limita ad interrompere il trattamento, così consentendo al paziente di morire per cause naturali (e non azionando un nuovo decorso causale).

Successivamente, con la pronuncia del 2019, la Consulta, nel dichiarare la parziale incostituzionalità dell'art. 580 c.p.[1], ha riconosciuto 4 condizioni, di cui tre sostanziali ed una procedurale, in presenza delle quali la condotta di aiuto al suicidio non è penalmente rilevante: il soggetto deve essere affetto da patologia irreversibile che gli provochi sofferenze fisiche e psichiche intollerabili, deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e mantenere la capacità di autodeterminarsi in ordine al suicidio, e tali condizioni devono essere accertate nell'ambito di una procedura c.d. "medicalizzata", che consenta l'intervento di una struttura del sistema sanitario nazionale ed il parere del comitato etico territorialmente competente.

Con tale decisione, pertanto, si è assistito ad un restringimento della portata applicativa dell'art. 580 c.p., al rispetto dei prescritti requisiti. Ne discende che, oltre al diritto di rifiutare le cure, è sorto anche un diritto di essere aiutati a morire in maniera dignitosa.

Sulla scorta di tali conclusioni, nel procedimento oggetto della pronuncia in esame, il GIP presso il Tribunale di Firenze ha ritenuto di non poter applicare i criteri forniti dalla Corte Costituzionale con la Sent. del 2019, collocandosi il caso di specie al di fuori dell'ambito tracciato dalla scriminante procedurale, non estendibile analogicamente. E proprio la mancanza della sottoposizione al "trattamento di sostegno vitale" – che consentirebbe di ritenere il fatto non punibile, al ricorrere anche delle altre condizioni – determinerebbe un'irragionevole disparità di trattamento, richiedente l'intervento della Consulta.

A parere del Giudice remittente, infatti, non parrebbe logico, secondo una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 3 Cost., fondare il riconoscimento della scriminante in relazione alla tipologia di trattamento sanitario cui è sottoposto il paziente, dovendo porsi l'attenzione anche sulle condizioni di vita in cui lo stesso versa. Dunque, più che il tipo di trattamento cui si ricorre, dovrebbero rivestire carattere determinante l'irreversibilità della malattia e la sofferenza che determina sulla persona, incidendo tali caratteristiche su diritti e valori costituzionalmente tutelati, rilevanti nel bilanciamento; non può non tenersi conto di quelle situazioni in cui il paziente, pur non essendo sottoposto a trattamenti di sostegno vitali meccanicamente intesi, sia affetto da una malattia irreversibile che lo costringe a condizioni di vita reputate intollerabili, ciò avendo inevitabili ripercussioni sul proprio concetto di diritto a vivere e morire con dignità.

Al contrario, la Corte ha ritenuto infondata la censura relativa all'art. 3 Cost., rilevando come le posizioni di coloro che sono sottoposti al trattamento di sostegno vitale e coloro che accedono ad altri tipi di terapie siano sostanzialmente distinte e, pertanto, non sussisterebbe una disparità di trattamento. Invero, il diritto di rifiutare le cure necessarie al mantenimento in vita introdotto con la Legge n. 219 del 2017 ("Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento") è riconosciuto solo ai soggetti sottoposti a trattamenti di sostegno vitale; al contrario, non sussiste un generale diritto a lasciarsi morire rifiutando le cure.

Quanto al contrasto con gli artt. 2, 13 e 32 Cost., il Giudice a quo ha evidenziato come far dipendere dalla tipologia di trattamento di cui si avvale il malato la possibilità o meno di accedere all'aiuto al suicidio appare lesivo della libertà di autodeterminazione, che verrebbe minata ove il destinatario dovesse scegliere di ricorrere ad un trattamento di sostegno vitale al solo fine di giovare della tutela riconosciuta dalla Sentenza del 2019, a prescindere dallo status della malattia e della sofferenza.

La Consulta, tuttavia, ha ritenuto infondata anche tale questione atteso che, pur essendo un diritto fondamentale quello del paziente di rifiutare i trattamenti clinici, ciò non determina un diritto a disporre della propria vita mediante l'ausilio di terzi. Inoltre, il bilanciamento tra il diritto all'autodeterminazione e la tutela della vita umana andrebbe operato dal legislatore, non potendo essere rimesso ad una valutazione della Corte o del singolo Giudice nel corso del procedimento.

In relazione alla violazione del diritto alla dignità ex artt. 2, 13 e 32 Cost., il GIP di Firenze ha evidenziato come non consentire al paziente affetto da patologia irreversibile di ricorrere all'aiuto al suicidio, pur in assenza di un trattamento di sostegno sanitario ma al ricorrere di una sofferenza ritenuta intollerabile, consisterebbe in una costrizione a vivere una vita contraria al proprio sentimento di dignità, intesa nella dimensione soggettiva; riconoscendo il principio personalistico – della dignità e della malattia – posto a base della Carta Costituzionale, non può non tenersi conto della concezione di dignità di ciascun individuo, anche nel bilanciamento con altri valori della persona.

La Corte ha però ritenuto che non può sostenersi che vi sia violazione del principio di tutela della dignità umana negando l'assistenza alla morte a pazienti che si trovano in presenza di tutte le condizioni indicate nella Sent. n. 242/2019, ad eccezione del trattamento di sostegno vitale, in quanto il divieto di cui all'art. 580 c.p. non equivale ad una costrizione a vivere una vita "non degna". Il concetto di dignità, al pari di quello di autodeterminazione, implica che ogni individuo possa adottare scelte fondamentali per la propria vita o fine vita, purché bilanciate con la tutela della vita umana, non essendo riconosciuto il diritto a morire.

Da ultimo, l'ordinanza di rimessione ha evidenziato la violazione dell'art. 117 Cost., letto alla luce degli artt. 2 e 8 CEDU, che rispettivamente tutelano il diritto alla vita ed al rispetto della vita privata e familiare, richiamando un precedente della Corte EDU[2] in cui ha affermato che le disposizioni che limitano la liceità dell'aiuto al suicidio rappresentano interferenze nella libertà di autodeterminazione della persona di cui all'art. 8 della Carta, ammissibili solo se "rivolte ad un fine legittimo e siano necessarie a proteggere altri diritti"[3].

La Consulta, uniformandosi alla lettura dell'art. 8 CEDU fornita dalla Corte di Strasburgo – che concede agli Stati un margine di apprezzamento per bilanciare il diritto al rispetto della vita privata con la tutela della vita umana – ha ritenuto non irragionevole limitare l'assistenza al suicidio a pazienti che possono già rifiutare gli stessi trattamenti di sostegno vitale.

La Corte, infine, ha lasciato uno spazio di luce nella parte in cui ha chiarito cosa debba intendersi per "trattamento di sostegno vitale"[4], specificando che qualora le "procedure si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l'espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno essere certamente considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell'applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019".

Dott.ssa Simona Ciaffone

[1] Nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017 n. 219, o con modalità analoghe per i fatti anteriori, agevoli l'esecuzione del proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale ed affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputi intollerabili, ma pienamente capace di adottare scelte libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e modalità siano state verificate dalla struttura pubblica del servizio sanitario nazionale e previo parere del comitato etico.

Al contrario, la Consulta ha ritenuto inammissibile il quesito referendario volto all'abrogazione dell'art. 579 c.p., in quanto lesivo del diritto alla vita, soprattutto dei soggetti più deboli, così ribadendo l'importanza di un bilanciamento tra i diversi valori costituzionalmente tutelati.

[2] Sentenza del 29/04/2002 – Pretty contro Regno Unito.

[3] Par. II, art. 8 CEDU.

[4] Punto 8 del Considerato in diritto: «Il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero apprese da familiari o "caregivers" che si facciano carico dell'assistenza del paziente».