Illecito deontologico: critiche all'operato del collega per subentrare nella difesa
Consiglio Nazionale Forense, Sentenza n. 139/23
Fatto ed excursus processuale:
L'Avv. *** è stato sottoposto a procedimento disciplinare per rispondere delle condotte di cui al seguente capo di incolpazione: "Violazione dell'art. 19 del Codice Deontologico Forense per avere espresso giudizi di valore in termini di critica nei confronti dell'operato della Collega *** e per aver tentato di far subentrare l'Avv. *** nella difesa della Sig.ra ***, già difesa dall'Avv. ***, ciò anche attraverso messaggi whatsapp inviati al proprio cliente".
A seguito della comunicazione dell'esposto, l'Avv. ricorrente depositava memoria difensiva e di contestazione degli addebiti con una serie di eccezioni. Il CDD di Trento disponeva la citazione a giudizio, approvando il succitato il capo di incolpazione.
Sulla scorta dei criteri generali dettati dall'art. 21 CDF (Potestà disciplinare), il CDD sanzionava l'Avv. ricorrente con la censura.
Avverso la decisione del CDD di Trento, l'Avv. ricorrente proponeva impugnazione e chiedeva al CNF:
- in via preliminare, di dichiarare improcedibile l'azione disciplinare;
- in via principale, nel merito, previa declaratoria di inutilizzabilità ai fini probatori della chat whatsapp prodotta dall'esponente, di deliberare il proscioglimento, non essendovi luogo a provvedimento disciplinare;
- in subordine, di infliggere una sanzione più lieve, nella specie l'avvertimento.
Il ricorrente fondava le proprie difese su quattro motivi di ricorso:
1) Il primo motivo di ricorso si incentrava sull'improcedibilità dell'azione disciplinare, in quanto il contenuto dell'esposto ed i suoi allegati avrebbero configurato in astratto il reato di cui all'art. 616 c.p.;
2) Con il secondo motivo si lamentava l'inutilizzabilità ai fini probatori delle conversazioni whatsapp intercorse tra l'odierno ricorrente ed il Sig. ***, anche alla luce della pronuncia della Corte di Cassazione n. 49016/17 sulla corretta acquisizione della prova documentale, costituita da una chat telematica.
Richiamando la pronuncia della Corte, l'Avv. ricorrente lamentava che il CDD di Trento avrebbe basato la propria decisione sui documenti cartacei che riproducevano la conversazione, senza acquisire il supporto telematico contenente la conversazione stessa, con ciò rendendo del tutto inutilizzabili i documenti cartacei allegati all'esposto;
3) Con il terzo motivo l'Avv. ricorrente eccepiva l'inutilizzabilità anche nel procedimento disciplinare della corrispondenza intercorsa tra l'imputato ed il proprio difensore a prescindere dalla natura aperta o chiusa della stessa, in forza del combinato disposto degli artt. 10, comma 4, Regolamento CNF n. 2/14 e 103, comma 7, 4 c.p.p.;
4) Con l'ultimo motivo si lamentava l'evidente sproporzione della misura disciplinare adottata rispetto ai fatti oggetto di incolpazione.
Motivazione del CNF:
Con il primo motivo – come già evidenziato poco sopra - il ricorrente denunciava l'improcedibilità dell'azione disciplinare, in quanto scaturente da un esposto la cui formazione richiedeva necessariamente la commissione di uno specifico fatto di reato, ossia il delitto di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza, di cui all'art. 616 c.p.
Tale motivo è stato rigettato dal CNF, considerato che, anche alla luce della più recente giurisprudenza, il potere disciplinare risulta esercitabile d'ufficio e non presuppone un esposto, né un interesse dell'esponente (sentenze n. 67/21 e 114/20 CNF).
Ha precisato, tra l'altro, il CNF che la procedibilità dell'azione disciplinare non è in alcun modo condizionata dall'illegittimità delle modalità con cui l'esponente ha documentato le condotte denunciate.
Alla luce di quanto premesso, il CNF ha rigettato altresì il secondo e il terzo motivo di ricorso, entrambi inerenti la liceità della provenienza della chat e l'inutilizzabilità della stessa, in quanto i fatti contestati, anche senza necessità di avvalersi dei messaggi whatsapp, risultano confermati, non solo in forza delle deposizioni rese in sede di dibattimento, ma anche in considerazione della mancata contestazione degli avvenimenti da parte dell'Avv. ricorrente, risultando evidente che il comportamento deontologicamente reprensibile risulta provato e ammesso da parte dello stesso incolpato, senza necessità di ricorrere alla chat per dimostrarne la sussistenza.
Conformemente al CNF si è espressa anche la Suprema Corte a Sezioni Unite nella sentenza n. 36660/22, affermando quanto segue: "In tema di giudizio disciplinare nei confronti di un avvocato, le dichiarazioni rese dall'incolpato al consigliere istruttore nel corso della fase pre-procedimentale, ex art. 58 della l. n. 247 del 2012, possono essere valutate quale elemento di prova contro il dichiarante […] perché prevale, in ogni caso, il principio di autoresponsabilità, sicché la parte deve adeguatamente valutare la portata delle proprie dichiarazioni".
Nello stesso senso si è espressa anche la sentenza n. 142/22 CNF, ritenendo che "nel procedimento disciplinare – che ha natura amministrativa, ma al quale si applicano le norme del codice di procedura penale in quanto compatibili (art. 59 lettera n legge 247/12) – la confessione non ha efficacia di prova legale piena, ma deve essere apprezzata unitamente ad altri elementi raccolti e può essere valutata come prova sufficiente di responsabilità del confitente in presenza di riscontri esterni, o indipendentemente dagli stessi, quando il CDD, nel suo potere di apprezzamento delle risultanze probatorie, valuti le circostanze (obiettive e subiettive) che hanno determinato ed accompagnato la confessione, dando conto del proprio convincimento circa l'affidabilità della stessa."
Nel caso di specie, dunque, il comportamento contestato risulta chiaro, perché confermato dall'istruttoria dibattimentale e percepito come tale anche dallo stesso incolpato, che non nega di averlo tenuto e addirittura ne ammette il contrasto con quei principi di correttezza e lealtà imposti dal Codice Deontologico nei confronti della Collega, tanto da attivarsi per cercare di rimediare alle "espressioni infelici" usate nei confronti dell'Avv. ***.
Il CNF ha accolto, invece, il quarto motivo di ricorso, in quanto l'Avv. ricorrente ha cercato in ogni modo di porre rimedio al proprio comportamento, comprendendo la mancata corrispondenza alle norme deontologiche, ritenendo applicabile la sanzione dell'avvertimento.
P.Q.M.:
Il Consiglio Nazionale Forense ha accolto il ricorso, limitatamente al quarto motivo di ricorso e, in parziale riforma della decisione impugnata, ha inflitto all'incolpato la sanzione disciplinare dell'avvertimento.
Conclusioni:
Il Consiglio Nazionale Forense con la predetta pronuncia ha voluto affermare il principio secondo cui neppure il dovere di difesa è in grado di giustificare la commissione di illeciti disciplinari a pretesa tutela del cliente.
La condotta dell'avvocato, difatti, deve essere sempre rispettosa dei principi di lealtà e correttezza, come anche del rapporto di colleganza, non potendo il difensore screditare un altro collega per convincerlo a farsi rilasciare il mandato, subentrando nella difesa come nuovo avvocato.