I profili di imputabilità e gravità dell’inadempimento secondo la recente giurisprudenza in materia di risoluzione

07.03.2025

A cura del Dott. Gennaro Ferraioli

La risoluzione è uno strumento predisposto dall'ordinamento a tutela dell'equilibrio sinallagmatico del contratto.

Tramite tale istituto, viene riconosciuto alla parte un diritto potestativo che le consente di sciogliersi dal vincolo negoziale, di modo da non rimanere obbligata da un contratto la cui causa sia stata inevitabilmente alterata.

Per impostazione minoritaria, invece, l'attribuzione si giustifica non in virtù dell'incapacità funzionale del negozio, bensì allo scopo di riequilibrare in maniera obiettiva i rapporti tramite uno strumento caducatorio.

Il codice disciplina l'istituto al Capo XIV del Titolo II del Libro IV, agli articoli 1453 e ss., individuando tre distinte ipotesi di risoluzione dovute a situazioni sopravvenute alla stipula che incidono sul sinallagma.

La risoluzione colpisce non il contratto come atto, che rimane valido, bensì il contratto come rapporto, privandolo di efficacia e causandone l'estinzione.

Tra le fattispecie che danno luogo alla risoluzione negoziale, figura quella per inadempimento dell'obbligazione.

L'ordinamento configura come risolvibili per inadempimento i contratti in cui esiste un nesso di corrispettività tra le prestazioni, i.e. sinallagmatici, ex art. 1453 c.c.

La risoluzione, dunque, rappresenta un rimedio che consente al contraente di reagire al mancato o inesatto adempimento della controparte, tuttavia, la portata caducatoria dello strumento opera solo al ricorrere di determinati presupposti.

In primo luogo, è necessario premettere come il suo esercizio sia una facoltà rimessa alla parte, la quale può anche agire in prima istanza per l'esatto adempimento. È fatta salva, in ogni caso, la domanda di risarcimento del danno, la quale è autonoma rispetto alle altre due.

Nell'ipotesi della risoluzione di cui all'art. 1453 c.c., il semplice inadempimento non è sufficiente per legittimare la parte alla "distruzione del contratto", la giurisprudenza si è, infatti, allineata sulla condizione per cui l'inadempimento debba essere imputabile.

Occorre, cioè, che sia soddisfatto il requisito dell'"elemento soggettivo", e l'inadempimento sia dovuto a dolo o quantomeno a colpa del debitore; tale precisazione vale anche in presenza di una clausola risolutiva espressa o di una diffida ad adempiere intimata dal creditore ex art. 1454 c.c.

L'esposta impostazione supera l'orientamento tradizionale che qualificava la risoluzione come strumento di semplice tutela del contraente non inadempiente; la nuova posizione, orientata in senso soggettivo, tutela anche il comportamento incolpevole della controparte e l'interesse dell'ordinamento a non sciogliere rapporti contrattuali la cui mancata attuazione non sia stata volontaria.

Portato applicativo di questa rinnovata visione è che la responsabilità del debitore segue la disciplina di cui all'art. 1218 c.c.; il debitore non è, così, ritenuto responsabile qualora dimostri che l'inadempimento dell'obbligazione sia derivato da causa a lui non imputabile, ossia dimostri la sussistenza di circostanze obiettivamente apprezzabili, idonee a far escludere l'elemento psicologico.

Per risalente giurisprudenza, infatti, in materia di responsabilità da inadempimento, l'art. 1218 c.c. è strutturato in modo da porre a carico del debitore una presunzione di colpa per il solo fatto del mancato adempimento. La presunzione è superabile mediante la prova dello specifico impedimento che ha reso impossibile la prestazione .

Così, nel caso di prestazione resa impossibile per fatto del terzo, il debitore non solo dovrà dare prova di ciò, ma anche della non ordinaria diligenza richiesta per la rimozione dell'ostacolo.

Di conseguenza, la risoluzione del contratto a carico del debitore non viene ammessa quando il debitore superi la presunzione di colpevolezza, anche tramite la prova che, nonostante l'ordinaria diligenza, la prestazione non sarebbe stata possibile.

Il giudizio di imputabilità segue sempre quello inerente al secondo requisito richiesto ex lege ai fini della risolvibilità del contratto, quale quello della gravità dell'inadempimento.

Ai sensi dell'art. 1455 c.c., infatti, il contratto è risolvibile solo laddove l'inadempimento abbia una non scarsa importanza avuto riguardo all'interesse del creditore.

La valutazione viene condotta tenuto conto del confronto con l'economia e l'equilibrio generale del contratto e del sinallagma, nonché del concreto svolgimento del rapporto.

La stessa Corte di legittimità richiede una valutazione non isolata, ma tenuta nel suo complesso da intendersi in relazione all'attitudine dell'inadempimento a turbare la causa del contratto e, in definitiva, sull'equilibrio contrattuale.

Ad oggi, è pacifico che il giudizio ex art. 1455 c.c. debba essere condotta anche sulla base del generale principio di buona fede.