L’ operatività della desistenza volontaria nel concorso di persone
L'istituto della desistenza volontaria appare particolarmente spinoso a causa dei suoi profili nebulosi, che creano confusione con un altro istituto delineato nell'articolo 56 c.p. sul delitto tentato, cioè il recesso attivo.
La desistenza volontaria e il recesso attivo rappresentano le due ipotesi in cui può atteggiarsi il tentativo ai sensi dell'art. 56 c.p., comma 1, il quale, testualmente, recita: «chi compie atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica»: quando l'azione non si compie si ha la figura del tentativo incompiuto, se viceversa l'azione si compie ma non si verifica l'evento, ricorre invece la cosiddetta figura del tentativo compiuto.
L'art. 56 comma 3 c.p., nel trattare la desistenza volontaria configura l'ipotesi in cui il soggetto attivo realizza un tentativo "punibile ma incompiuto", in quanto il reo, del tutto volontariamente, desiste dall'azione non portandola a pieno compimento, ragion per cui soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso.
Differentemente, nell'art. 56 comma 4 c.p., invece, si definisce il recesso attivo come un'ipotesi di interruzione da parte del reo dell'azione delittuosa intrapresa, ovvero è un tentativo compiuto caratterizzato dall'adoperarsi per impedire l'evento effetto dell'azione criminosa. Più precisamente, stando ad un orientamento giurisprudenziale (Cass., Sez. 1^, 17/01/1996, n. 7033, Pietrzak; Cass., Sez. I, 08/10/2009, n. 40936), costituisce recesso attivo l'ipotesi in cui ad attività criminosa compiuta, l'agente interrompe l'ormai autonomo processo naturale, che è in rapporto necessario di causa ed effetto tra una determinata condotta ed un determinato effetto conseguente, così da impedire il verificarsi dell'evento. Per il recesso attivo, il soggetto attivo dell'azione criminosa soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.
Nonostante le differenze evidenziate, entrambi gli istituti di cui all'articolo 56 c.p. non possono prescindere dall'elemento della volontarietà. A tal proposito, riprendendo una efficace frase di autorevole dottrina[1], "La desistenza è volontaria quando si possa dire che l'agente ha ragionato in questi termini: «potrei continuare, ma non voglio»; inversamente, la desistenza non è volontaria quando l'agente ha detto a se stesso: «vorrei continuare, ma non posso»", dunque l'iter criminis è interrotto dal colpevole senza condizionamenti costituiti da fattori esterni, bensì, al contrario che nel recesso attivo, detiene ancora il controllo dell'azione, secondo la cosiddetta "tesi del dominio dell'azione".
Si badi bene, che, però, la volontarietà dell'azione nell'impedire la realizzazione dell'azione criminosa prefigurata non costituisce pentimento. L'agente risponderà di desistenza volontaria anche se abbandona il proposito criminoso, fruendo della non punibilità, per meri calcoli utilitaristici. Ad esempio, si pensi al caso di Tizio che, conscio di poter portare a compimento un omicidio, decide di rimandare il compimento dell'azione ad un momento in cui si troverà in un posto più isolato per agire indisturbato. Tale soluzione è coerente con la collocazione della desistenza volontaria nell'articolo 56, comma 3, c.p., che tratta della punibilità e non della colpevolezza.
Dopo queste generali premesse necessarie a definire la desistenza volontaria, è interessante trattare le peculiarità di questo istituto nel caso di concorso di persone, ex art. 110 c.p.
Innanzitutto, occorre porre su piani distinti la desistenza volontaria dell'autore del reato da quella del partecipe, in caso di concorso di persone.
La desistenza volontaria dell'autore del reato assolve questi da ogni responsabilità penale, mentre i compartecipi risponderanno di delitto tentato, nel caso apportino un contributo causale, in quanto l'art. 56, comma 3, c.p., rappresentando una causa di non punibilità in senso stretto, segue la disciplina di cui all'art. 119, comma 1, c.p., circa la mancata estensione delle circostanze soggettive di esclusione della punibilità ai concorrenti.
Quanto alla desistenza volontaria dei partecipi, in giurisprudenza si sono contrapposti due distinti orientamenti. La tesi meno accreditata configura la desistenza soltanto nel caso in cui il partecipe impedisca la consumazione del reato, paralizzando quindi l'attività di tutti i concorrenti. Questa interpretazione così stringente è confutata dalla dottrina, per cui è sufficiente che "che il partecipe abbia neutralizzato gli effetti della sua azione; l'eventuale successiva condotta autonoma che porti l'autore a realizzare il reato sarà priva di ogni collegamento causale con la condotta del partecipe e potrà fondare una responsabilità del solo autore[2]". Questo è l'orientamento accolto anche dalla giurisprudenza più recente, sulla base anche di una più scrupolosa lettura dell'articolo 56 e del concorso ex art. 110 c.p., che richiede la necessità di un contributo causale nei reati plurisoggettivi. Per concludere, questa seconda tesi sarebbe anche più coerente con la ratio dell'istituto di cui all'articolo 56 comma 3 c.p. che, secondo la cosiddetta "teoria del ponte d'oro", è una promessa d'impunità volta a fermare l'intento criminoso, secondo il principio di prevenzione generale.
[1] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale - Parte Generale, Edizione 2020.
[2] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale - Parte Generale, Edizione 2020.