La cessione volontaria del bene e la disciplina applicabile

10.05.2024

La cessione volontaria del bene è un modulo di alternativa definizione del procedimento di esproprio.

La sua disciplina si rinviene nell'art. 45 del Testo Unico espropri (D.P.R. n. 327 del 2001) e si ispira ai principi enunciati all'interno dell'art. 2, 2° co. del medesimo corpus normativo, in particolare a quelli di legalità, di efficienza, e di semplificazione.

L'istituto può essere attuato a due date condizioni previste dalla legge e presenta innegabili vantaggi per la P.A.

Innanzitutto, sul piano dei requisiti, si richiede che sia stata pronunciata dichiarazione di pubblica utilità del bene e che sia stato già concluso il sub-procedimento di determinazione dell'indennizzo.

In merito, poi, ai benefici, il primo è dato dalla previsione secondo cui l'accordo, a differenza del procedimento ordinario, debba essere concluso dal "soggetto beneficiario", sia esso anche un privato.

Ancora, qualora vi sia identità tra l'amministrazione e il beneficiario, la stessa non dovrà seguire le singole fasi imposte per il procedimento di esproprio e acquisirà il bene in virtù del consenso traslativo.

Allo scopo di invogliare il ricorso a tale strumento, l'ordinamento ha predisposto delle condizioni di vantaggio anche per l'espropriato.

In primis, l'art. 45 T.U. qualifica il potere di stipula come un diritto in capo al privato, sulla cui natura si dibatte.

Se un orientamento lo designa come potestativo, in senso contrario è necessario che si osservi come, all'esercizio di una potestà, faccia da contraltare un semplice pati, i.e. un sopportare. Nel caso in questione, invece, il diritto del privato necessita, per essere attuato, che lo stesso beneficiario dell'esproprio si attivi in positivo in vista della stipula.

In secondo luogo, la norma prevede anche un vantaggio economico: grazie all'intervento innovativo ex d.lgs. 302/2002, è prevista la maggiorazione dell'indennizzo spettante al privato rispetto alla somma altrimenti corrisposta in sede procedimentale.

Si può affermare, dunque, che il negozio di cessione volontaria del bene è un contratto di compravendita bilaterale, stipulato tra il proprietario espropriato e il soggetto individuato come beneficiario dalla P.A., il quale assolve, oltre la causa tipica, quella di concludere in via alternativa il procedimento di esproprio.

In merito alla natura del contratto, si sono affermati tre contrapposti orientamenti.

A detta di una prima impostazione, l'art. 45 T.U. costituisce applicazione specifica dell'istituto ex art. 11 l. 241/90. Il negozio, dunque, sarebbe un accordo sostitutivo del provvedimento.

Tale orientamento è stato criticato per una serie di motivi.

In primis, si osserva che vi è una difformità sulle parti contraenti legittimate.

Ancora, per espressa previsione, la stipula dell'accordo sostitutivo è una facoltà esercitata dalla P.A., nella disciplina di cui al T.U., invece, la conclusione del negozio è un diritto ex lege del beneficiario.

In terzo luogo, il contenuto dell'accordo è, nel primo caso, concordato, mentre nel secondo è lo stesso di quello che avrebbe rivestito il provvedimento, mutando solo il quantum dell'indennizzo, tra l'altro determinato dalla voluntas legis, non delle parti.

In giurisprudenza, si è così affermata una seconda impostazione, a detta della quale il negozio ex art. 45 T.U. è un vero e proprio contratto di diritto privato

In senso critico: sebbene l'accordo rivesta forma privatistica, la sua causa consiste anche nel perseguimento del pubblico interesse.

Soprattutto, non può non notarsi come, in virtù dell'espressa equiparazione degli effetti al decreto di esproprio, ex art. 45, 3° co. T.U., il trasferimento del bene si ritiene avvenga, nonostante il contrasto non sia del tutto sopito, a titolo originario e non derivato.

La giurisprudenza maggioritaria sostiene un terzo orientamento, a detta del quale il negozio di cessione del bene è un contratto di diritto pubblico, un negozio civilistico con peculiari caratteristiche derivanti dalla causa perseguita.

Sorge, in tal modo, il problema della perimetrazione della disciplina applicabile.

La giurisprudenza richiama pacificamente le norme civilistiche compatibili in materia di interpretazione, di sostituzione automatica di clausole, di revoca della proposta contrattuale, di nullità per illiceità o mancanza di oggetto determinato o determinabile, di annullabilità e convalida.

Di tal guisa, per un orientamento, sarebbero parimenti applicabili le norme in tema di contratto preliminare.

Sulle norme in tema di rescissione, invece, una corrente dottrinaria e giurisprudenziale non si mostra favorevole circa la loro compatibilità.

A fondamento, si parte da un'attenta disamina del Capo XIII del Libro IV del codice civile.

Una delle condizioni dell'azione di rescissione è l'approfittamento di uno stato di pericolo (ex art. 1447 c.c.) o, in via generale, di bisogno (ex art. 1448 c.c.) in cui versa la controparte.

Tale stato di approfittamento, afferma la giurisprudenza, mal si concilia con l'attività amministrativa improntata a collaborazione e buona fede ex art. 1, co. 2-bis l. 241/90; per questa ragione un contratto concluso in tali termini non sarebbe rescindibile per vizio genetico del sinallagma, ma annullabile per violazione di legge.

Di conseguenza, le norme in tema di rescissione sono da ritenersi inapplicabili.

La questione della perimetrazione si propone in tutta la sua rilevanza nelle ipotesi in cui sopravvengano dei vizi funzionali del contratto.

Il caso pratico più frequente è quello in cui l'espropriante manchi di corrispondere l'indennizzo una volta che sia stata perfezionata la stipula.

Rispetto alle ipotesi in cui si proceda secondo l'ordinario procedimento di esproprio, infatti, la giurisprudenza non è ancora intervenuta al fine di delineare i rimedi attuabili.

A fronte dell'inadempimento, il codice civile rimette a tutela della parte non inadempiente gli strumenti dell'azione di esatto adempimento, di risoluzione e di risarcimento del danno.

Una corrente giurisprudenziale estensiva ritiene che tali istituti concorrano insieme a garantire il privato dinanzi all'espropriante inadempiente.

Tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria si pronuncia in senso maggiormente restrittivo.

L'art. 45, 3° co. T.U., infatti, stabilisce espressamente che l'accordo mantiene la propria efficacia anche dinanzi all'inadempimento dell'acquirente nel termine concordato.

Per il suddetto orientamento, il legislatore ha inteso vietare in maniera implicita l'operatività delle norme di risoluzione per inadempimento.

Rimane, così, il diritto di agire per l'esatta esecuzione della prestazione, fatto salvo in ogni caso il diritto al risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.

In merito, si ritiene comunque sussistente un vantaggio in capo al privato non inadempiente.

In primis, sul piano sistematico, l'inadempimento contrattuale è pacificamente considerato oggettivo, dunque risarcibile in ogni caso.

In secondo luogo, sul piano probatorio, la prova dell'impossibilità della prestazione grava sull'espropriante, mentre sul privato il solo onere di allegazione del titulus.

Dott. Gennaro Ferraioli