Le garanzie del diritto penale valgono anche nei confronti degli enti
Con l'approvazione del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, il diritto penale ha subito una vera e propria rivoluzione copernicana: per la prima volta si è affermato il principio per cui societas delinquere et puniri potest[1], nonostante le forti rimostranze espresse da quota parte della dottrina[2]. Una frangia di quest'ultima, infatti, sosteneva che solo le persone fisiche, e non anche gli enti, potessero commettere reati.
Le forti diffidenze nutrite da alcuni commentatori portarono il legislatore a prevedere una forma ibrida di responsabilità, manifestata dalla stessa denominazione di quest'ultima quale «amministrativa da reato», e di conseguenza a porla a metà tra la responsabilità amministrativa e quella penale.
Nonostante tale natura ibrida, il legislatore ha voluto espressamente prevedere che le garanzie tipiche del diritto penale, ed in particolare modo il principio di legalità e il corollario della tassatività, valessero anche nel cosiddetto sistema 231.
Nel settore della responsabilità amministrativa da reato degli enti, il principio di legalità ex art. 2 d.lgs. 231/2001 assume una duplice veste: da un lato, è necessario che il fatto sia previsto come reato al momento della sua commissione, negli stessi termini in cui tale principio è in generale disciplinato ai sensi dell'art. 25, comma 2, Cost. e artt. 1 e 2 c.p.; dall'altro lato, è anche necessario che il reato commesso sia espressamente previsto come uno dei reati presupposto per l'integrazione della responsabilità dell'ente.
In altri termini, l'ente non incapperà in alcuna sanzione sia nel caso in cui un fatto non sia previsto dalla legge come reato, sia nel caso in cui un fatto sia previsto come illecito penale, ma non sia contenuto nell'elenco di reati presupposto di cui agli artt. 24 ss. d.lgs. 231/2001.
Sebbene il legislatore abbia adottato una particolare premura per far sì che le garanzie costituzionalmente previste nell'ambito del diritto penale della persona fisica si estendessero anche al sistema 231, in passato si sono verificate alcune storture. In particolare, tali distorsioni si sono concretizzate sia a livello legislativo[3] che a livello della giurisprudenza di merito[4]. Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha da sempre dedicato una particolare attenzione al rispetto delle garanzie costituzionalmente previste e, in primis, del principio di legalità.
Lungo questa scia si colloca la recente sentenza della Sez. III penale, n. 2234 del 9 luglio 2021. Per comprendere al meglio la complessa tematica sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, è opportuno effettuare una breve premessa sulla ricostruzione del fatto.
Nell'anno 2011 alcune perdite di idrocarburi contenuti in silos di una raffineria avevano causato l'inquinamento del suolo e del sottosuolo del terreno. Le perdite erano state inizialmente registrate senza che venisse effettuato alcun intervento per porvi rimedio. Solo dopo molti giorni venivano intraprese alcune attività, senza che quest'ultime riuscissero tempestivamente a risolvere la situazione.
Di conseguenza, diversi reati ambientali venivano contestati al vertice e al personale della società in questione, tra cui, per quel che qui interessa, «[il] reato di cui agli artt. 110 c.p. e art. 256, comma 1, lett. b) e comma 2 del d.lvo n. 152 del 2006, quest'ultimo in relazione alla lettera a) ed alla lettera d) n. 2 dell'art. 6 della legge del 30.12.2008, n. 210», reato indicato al capo 3) d'imputazione. Proprio in relazione a tale fatto si provvedeva simultaneamente a contestare al capo 4) la responsabilità amministrativa da reato dell'ente ai sensi dell'art. 25-undecies, comma 2, lett. b), n. 2, d.lgs. 231/2001. I giudici di merito condannavano gli imputati-persone fisiche alla pena della reclusione e della multa e l'imputato-ente al pagamento della sanzione pecuniaria.
Contro la sentenza di appello proponeva ricorso per cassazione il rappresentante dell'ente, in particolare censurando la sentenza impugnata per la condanna per un reato non contenuto nell'elenco di cui al d.lgs. 231/2001. Il difensore, infatti, sosteneva che il capo 3), a sua volta richiamato dal capo 4), andava interpretato come contestazione dei fatti illeciti previsti e puniti dall'art. 6, lett. a) e d), n. 2, l. 210/2008, seppur tramite rinvio effettuato dall'art. 256 d.lgs. 152/2006. Altrimenti argomentando, non si potrebbe spiegare la condanna delle persone fisiche alle pene tipiche del delitto piuttosto che di quelle tipiche della contravvenzione[5]. Di conseguenza, i giudici di merito avrebbero violato il principio di legalità laddove avevano condannato l'ente per una fattispecie non prevista come reato presupposto, mancando qualsiasi riferimento al delitto da ultimo citato nel d.lgs. 231/2001.
Con la sentenza n. 2234/2022, il giudice di legittimità ha colto l'occasione per ribadire ancora una volta la valenza pregnante del principio di legalità anche nel sistema 231. Infatti, preso atto della assenza nell'ordinamento giuridico italiano di una «estensione della responsabilità da reato alle persone giuridiche di carattere generale, coincidente cioè con l'intero ambito delle incriminazioni vigenti per le persone fisiche» e della sussistenza di «un doppio livello di legalità» imposto dalla suddetta normativa, nel caso in esame i giudici di merito avevano violato tale principio laddove avevano condannato l'ente per un reato non espressamente previsto all'interno del d.lgs. 231/2001.
Infatti, il fatto «[veniva] contestato in relazione alla lettera a) ed alla lettera d) n. 2, dell'art. 6, d.l. 6/11/2008, n. 172, convertito con modificazioni dalla legge 30/12/2008, n. 210». Nell'elenco contenuto nel d.lgs. 231/2001 «tuttavia non si rinviene l'art. 6, lett. a) e d) citato». Di conseguenza, «non potendo il reato previsto dalla disciplina emergenziale legittimare l'affermazione della responsabilità [dell'ente], la sentenza impugnata, sul punto, va annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce illecito amministrativo».
Per quanto la pronuncia in esame soffra dell'influenza
dovuta alle caratteristiche dello specifico caso concreto e della peculiare
formulazione del capo di imputazione, tuttavia è esemplificativa della
particolare attenzione dedicata dalla giurisprudenza di legittimità al rispetto
del principio di legalità nel sistema 231. Infatti, indipendentemente dalla
natura del soggetto imputato o incolpato, tale principio riveste sempre e
comunque una posizione di primo piano.
Dott. Marco Misiti
[1] La formula è ripresa da C. Piergallini,Societas delinquere et puniri potest: la fine tardiva di un dogma, in Riv. trim. dir. pen. econ., 3/2002, 571 ss
[2] Per una completa disamina della contrapposizione sorta in dottrina sulla opportunità della introduzione di una responsabilità da reato per l'ente si rinvia a E. M. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, Diritto penale dell'impresa, Bologna, 2016, 48 ss.
[3] In merito a tale considerazione, si veda quanto previsto dall'art. 192, comma 4, d.lgs. 152/2006 (Testo unico ambiente) anche nella sua originaria formulazione. Infatti, tale disposizione conteneva un riferimento esplicito alle previsioni del d.lgs. 231/2001, senza tuttavia modificare l'elenco dei reati presupposto contenuto nel suddetto decreto né tantomeno fissare le tipologie di sanzioni applicabili. Di conseguenza, prima della introduzione dell'art. 25-undecies all'interno del Decreto 231, è intervenuto il giudice di legittimità (in particolare Cass. pen., Sez. III, sentenza 7 ottobre 2008, n. 41329) a precisare che «non è imputabile all'ente [...] la responsabilità amministrativa per il reato di gestione non autorizzata di rifiuti, in quanto, pur essendovi un richiamo a tale responsabilità [...] difettano attualmente sia la tipizzazione degli illeciti che l'indicazione delle sanzioni».
[4] Si veda sul punto Cass. pen., Sez. VI, sentenza 20 dicembre 2013, n. 3635. In particolare, dei numerosi reati contestati alle persone fisiche solamente alcuni figuravano anche quali reati presupposto ai fini della responsabilità dell'ente. Tuttavia, questi stessi reati erano stati considerati dai giudici della fase cautelare ai fini della determinazione del profitto confiscabile. Il giudice di legittimità, con la suddetta sentenza, ha affermato il principio per cui «in tema di responsabilità da reato degli enti, allorché si proceda per il delitto di associazione per delinquere e per reati non previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, la rilevanza di questi ultimi non può essere indirettamente recuperata, ai fini della individuazione del profitto confiscabile, per il loro carattere di delitti scopo del reato associativo contestato». Così facendo, il giudice di legittimità ha accertato la violazione del principio di legalità, ed in particolare di tassatività, in relazione alla disciplina 231.
[5] Infatti, mentre l'art. 256, comma 1, lett. b), d.lgs. 152/2006 prevede come cornice edittale la pena dell'arresto da sei mesi a due anni e dell'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro, l'art. 6, lett. a) e d), n. 2, della legge 210/2008 fa espresso riferimento alla pena della reclusione e della multa. Di conseguenza, mentre nel T.U.A. si fa riferimento a una contravvenzione, nel secondo provvedimento si sanziona un delitto.