Licenziamento per soppressione del posto di lavoro: se si sta per liberare una posizione il recesso è illegittimo

10.06.2023

Cass. civ., sez. lav., 8 maggio 2023, n. 12132

La controversia di cui si è occupata, in questa occasione, la Suprema Corte trae origine dall'impugnazione di un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo.

Più specificamente, la motivazione addotta dal datore a fondamento del proprio recesso consisteva nella soppressione del posto di lavoro cui era addetto il dipendente licenziato.

La Corte di Cassazione ha innanzitutto ribadito, nella pronuncia qui in esame, un principio tradizionale e, cioè, che il datore di lavoro deve provare in giudizio l'assenza – al momento del licenziamento – di posizioni analoghe a quella soppressa, a cui avrebbe potuto assegnare il lavoratore per lo svolgimento di mansioni equivalenti a quelle sino ad allora svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta da quest'ultimo (c.d. repêchage).

Tuttavia – ed è in questo che risiede l'interesse della sentenza – la Corte si è soffermata anche su un aspetto particolare e aggiuntivo.

Nei precedenti gradi di giudizio, infatti, era stato accertato che, all'epoca del licenziamento, altri due dipendenti che svolgevano mansioni analoghe a quelle del lavoratore licenziato avevano rassegnato le dimissioni, con un termine di preavviso che sarebbe scaduto poco dopo il licenziamento e che avrebbe determinato l'esigenza, per il datore di lavoro, di provvedere alla loro sostituzione.

La Cassazione ha, dunque, affermato il principio secondo cui "il datore di lavoro, nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento" deve prendere in esame "anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso": questo, onde non incorrere in una violazione dei generali principi di buona fede e correttezza, che determinerebbe la censurabilità della sua scelta pur se formalmente corretta.

Nella pronuncia in esame, la Suprema Corte fa una corretta applicazione, in primo luogo, dei criteri di ripartizione dell'onere della prova previsti dall'art. 2697 c.c. e, per quanto concerne più specificamente la disciplina lavoristica, dall'art. 5 della l. n. 604/1966, a mente del quale, appunto, "l'onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro".

In secondo luogo, la Corte richiama con precisione quale sia l'oggetto della prova che il datore è chiamato ad assolvere nelle ipotesi di licenziamento da soppressione del posto di lavoro, individuandolo – da un lato – nell'assenza di altre posizioni in cui ricollocare utilmente il dipendente e – dall'altro lato – nella circostanza che, per un congruo periodo di tempo, non era stata poi effettuata alcuna nuova assunzione in qualifiche analoghe a quelle del dipendente licenziato.

Da ultimo, la Corte ha interpretato tale oggetto di prova facendo un'applicazione che può dirsi condivisibile dei principi di buona fede e correttezza che devono presiedere – come ad ogni contratto – anche all'esecuzione del rapporto di lavoro e alla sua cessazione. In particolare, ha dato una nuova interpretazione del perimetro temporale entro il quale deve valutarsi l'assenza di altre posizioni lavorative cui destinare il dipendente al fine di evitare il suo licenziamento, enunciando un principio di diritto che – se applicato correttamente – potrà forse essere utile, in futuro, a salvaguardare maggiormente i volumi occupazionali.

Avv. Claudio Serra