Mamma lascia il figlio neonato in ospedale e va via. Abbandono: tra diritti, doveri, punizioni e privacy
Venerdì scorso, 26 gennaio al pronto soccorso dell'ospedale di Aprilia, una mamma ha abbandonato un neonato di 6 mesi… e il momento esatto in cui una donna lascia il bimbo nella sua carrozzina e si allontana è stato filmato dalle telecamere di videosorveglianza.
La Convenzione sui diritti del fanciullo dell'Onu del 1989 all'art. 3, sancisce espressamente che "in tutte le azioni riguardanti bambini, se avviate da istituzioni di assistenza sociale, private e pubbliche, tribunali, autorità amministrative, corpi legislativi, i maggiori interessi dei bambini devono costituire oggetto di primaria importanza".
Si tratta di un principio programmatico che dall'entrata in vigore della L. di ratifica del 27 maggio 1991 n. 179, è divenuto principio cardine del nostro ordinamento giuridico e a conferma di ciò esiste tutta una giurisprudenza, di merito, di legittimità e anche della Corte Costituzionale che ha sempre più spesso fatto ricorso alla Convenzione Onu per l'interpretazione di norme in materia di diritto minorile, un'interpretazione diretta a favorire le esigenze e i diritti dei minori.
Materia e argomento che da sempre suscitano curiosità, sono i diritti umani e alla luce della Convenzione sopra menzionata, il minore è TITOLARE, oltre che dei diritti sociali quali il diritto all'istruzione, al lavoro, alla salute, all'assistenza, allo svago, alla protezione da ogni genere di sfruttamento, alla regolare socializzazione e all'eventuale risocializzazione (se si è interrotto o deviato l'itinerario formativo), anche e soprattutto di diritti individuali, quali:
- il diritto alla vita, inteso non solo come diritto alla vita fisica, ma anche come diritto ad uno sviluppo globale della personalità;
- il diritto alla propria identità, attraverso il riconoscimento delle appartenenze (il nome, la nazionalità…) e delle proprie peculiarità e aspirazioni;
- il diritto alle varie libertà essenziali affinché l'uomo possa porsi in relazione con gli altri (libertà di manifestare il pensiero, libertà di coscienza e di religione, libertà di associazione);
- il diritto ad essere protetto e tutelato da ogni forma di sfruttamento, di maltrattamento e di abuso;
- il diritto ad avere un ambiente familiare valido che consenta al minore di strutturare la propria personalità in modo adeguato, attraverso un rapporto relazionale intenso;
- il diritto alla tutela della propria privacy, affinché il delicato percorso di crescita e formazione del minore non sia turbato da agenti esterni;
- il diritto all'educazione, che racchiude tutti gli altri diritti, inteso come il diritto ad ottenere tutto il materiale necessario per la costruzione di una personalità matura ed adulta.
Orbene, venendo all'argomento di questo scritto, se cercassimo sul dizionario la nozione di abbandono, troveremmo "condizione dell'essere lasciato, gettato via, trascurato…" o almeno questo secondo il significato comune, anche se il legislatore non ha proprio fatto sua questa definizione.
Nel nostro ordinamento iniziò a parlarsi di minori abbandonati con la L. 17 luglio 1890 n. 6972 sull'assistenza ai poveri e in altre leggi più dettagliate volte all'assistenza minorile.[1]
Invero, la scelta del legislatore fin dai primi anni della disciplina è stata quella di non definire in maniera precisa quale sia la condizione del minore che si trova in uno stato di abbandono preferendo adottare una clausola generale che lasci al giudice e all'interprete una valutazione più adatta alle diverse realtà e alle condizioni personali, sociali e ambientali del singolo caso.
Ebbene, l'art. 8 della L. 184/1983, come modificato dalla L. 149/2001, co. 1, stabilisce che "Sono dichiarati in stato di adottabilità dal tribunale per i minorenni del distretto nel quale si trovano, i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio".
La sussistenza dell'abbandono, tra l'altro, è presupposto imprescindibile per la dichiarazione di adottabilità del minore cui è dedicato il capo II del titolo III della legge n. 149/2001 e che è il fulcro di tutta la procedura d'adozione.
La formulazione dell'art. 8, secondo il testo del 1983, faceva riferimento, genericamente, al "minore in stato di abbandono", mentre con l'ultima riforma si è voluto precisare che la situazione di abbandono deve essere "accertata".
Tale scelta fu fatta per delicatezza. Sostanzialmente, nella materia si contrappongono due interessi poiché da un lato vi è la tutela del rapporto di sangue e dall'altro, il diritto del minore ad essere inserito in una famiglia quando la sua non esiste o non sia comunque in grado di far fronte ai compiti che la legge le assegna.
Dunque, perché il tribunale per i minorenni possa pronunciare la dichiarazione giudiziale dello stato di adottabilità deve, perciò, sussistere la situazione di abbandono del minore; questi, cioè, deve essere privo dell'assistenza materiale e morale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi.
Ma… quali sono le conseguenze per chi abbandona un neonato?
La madre che abbandona il neonato viene punita anche se il minore non ha riportato nessuna ferita, basta che con questo gesto, volontario e consapevole, metta a repentaglio la vita del bambino. Se il neonato viene lasciato in un luogo sicuro, lontano dai pericoli, dove può essere subito ritrovato, è escluso il reato di abbandono.
Se il bambino, invece, dovesse essere lasciato in un posto pericoloso, al fine di liberarsi di lui, e dovesse riuscire a sopravvivere, la madre rischia di essere accusata di tentato omicidio.
Se il bambino, ritrovato non è in salute, la madre rischia di essere accusata del reato di lesioni personali (art. 582 c.p.), se viene ritrovato morto verrà ritenuta responsabile di omicidio (art. 575 c.p.).
Rimanendo nell'ambito penalistico mi preme citare l'art. 591 c.p. che prevede che commette il delitto di abbandono di minori o incapaci "chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a sé stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
[…]
Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall'adottante o dall'adottato."
Ovviamente si tratta di un reato proprio in quanto, nonostante la norma parli di "chiunque", il soggetto attivo può essere soltanto colui che abbia il dovere, anche di fatto, di custodire una persona minore di anni quattordici, oppure il dovere giuridico di custodire o curare un soggetto che, per qualunque motivo, sia incapace di provvedere a sé stesso. Soggetto attivo può, inoltre, essere colui che abbia abbandonato all'estero un minore italiano che gli sia stato affidato per motivi di lavoro in Italia.
Alla luce di quanto scritto sopra è spontaneo chiedersi <<che cosa può fare una donna che non vuole il proprio figlio?>>
Il nostro legislatore ha previsto una legge che disciplina il parto in anonimato con il DPR n. 396/2000, normativa pensata appositamente per contrastare l'abbandono dei bambini appena nati, l'aborto o l'infanticidio e dunque la legge consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell'ospedale in cui è nato, garantendogli così la massima assistenza e la tutela giuridica.
Per legge, entro 10 giorni dal parto si deve fare la dichiarazione di nascita perché necessaria per la formazione dell'atto di nascita e quindi per definire l'acquisizione dell'identità anagrafica, del nome e della cittadinanza. In caso di parto anonimo, la denuncia di nascita può essere fatta dall'ostetrica o dal ginecologo "La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dall'ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l'eventuale volontà della mamma di non essere nominata".
Quello che accade successivamente è che il bambino può essere adottato, vengono attivate tutte le procedure per trovare una coppia adatta a prendere con sé il piccolo, al neonato viene così garantito il diritto a crescere ed essere educato in famiglia e assume inoltre lo status di figlio legittimo dei genitori adottivi.
Gli elementi che possano in qualche modo far risalire all'identità della mamma devono essere sempre omessi nella segnalazione e nelle comunicazioni all'autorità giudiziaria.
C'è da dire che manca nel nostro ordinamento una definizione del diritto al parto in anonimato ma, nonostante ciò, come abbiamo visto sopra, alcune norme si occupano del diritto della partoriente a non essere identificata nell'atto di nascita. Innanzi tutto, la donna ha la facoltà di rimanere anonima!!! e questo diritto viene menzionato espressamente all'art. 30 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396/2000, che regola la formazione dell'atto di nascita, salvaguardando la volontà della donna di non essere nominata. A tal proposito ritengo necessario fare un accenno al decreto ministeriale 349 del 2001, che prevede quale regola l'inserimento del codice 999 per "donna che non vuole essere nominata"[2] al posto del nome e cognome della partoriente, prevedendo anche la necessità di garantire un raccordo tra il certificato di assistenza al parto, redatto secondo le modalità pocanzi menzionate e senza i dati idonei ad identificare la madre, con la cartella clinica custodita presso il luogo dove è avvenuto il parto. In secondo luogo il D. L.g.s 196 del 30 giugno 2003, il cosiddetto Codice in materia di trattamento di dati personali, regola e limita l'accesso ai documenti sanitari, che permettono l'identificazione della gestante.
Per giungere a quella che oggi chiamiamo "culla della vita", poi, vorrei chiarire che il diritto a partorire in anonimato affonda le sue radici nell'istituto post medievale della cosiddetta "ruota degli esposti", una struttura in legno a forma cilindrica, girevole, posta nel vano di una finestra all'ingresso di un edificio, collocata soprattutto in ricoveri religiosi, in cui venivano accolti i cosiddetti "trovatelli", ossia neonati che venivano salvati da morte quasi certa. I neonati venivano accolti, curati e nutriti. In questo modo la donna, che spesso aveva partorito in campagna o di nascosto, poteva lasciare il neonato nell'apertura, senza essere vista, suonare
un'apposita campanella in modo tale da permettere a chi stava dall'altro lato della "ruota" di accogliere il neonato.
Quindi la "culla per la vita" è la versione presente della medievale "Ruota degli Esposti". Essa è una struttura moderna, sicura e tecnologicamente all'avanguardia progettata per permettere di lasciare in un luogo protetto, i neonati da parte delle mamme in difficoltà. La culla si trova in luoghi facilmente raggiungibili, lontano da occhi indiscreti e garantisce la privacy della mamma che lascia il proprio figlio ed è dotata di una serie di dispositivi anche tecnologicamente avanzati per garantire la temperatura adeguata, la chiusura in sicurezza della botola mediante sensori, il presidio di controllo 24 ore su 24 e servizio di soccorso adeguato… L'eventuale telecamera posta all'interno della botola garantisce sempre l'anonimato di quanti dovessero utilizzarla, infatti l'angolo di visualizzazione è diretto esclusivamente alla culla.
Oggi in Italia sono numerose le "culle per la vita" che permettono e garantiscono il diritto ad una donna di rimanere nell'anonimato da un lato e dall'altro garantiscono le adeguate cure al neonato che potrebbe non sopravvivere se lasciato in un luogo pericolo e non adeguato alle esigenze fisiologiche.
Il caso di Aprilia
Come noto, lo scorso 26 gennaio, intorno alle 19.30, una donna ha lasciato un passeggino ben coperto, nella sala d'aspetto di un pronto soccorso di Aprilia, per poi dileguarsi.
La donna è stata ripresa dalle telecamere di sicurezza dell'ospedale e tale materiale video è stato divulgato in televisione per poi diffondersi a macchia d'olio su diverse testate ed emittenti nazionali.
Il richiamo del Garante Privacy
Con il comunicato stampa diramato lo scorso 28 gennaio, l'Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, ha reso noto il richiamo rivolto agli organi di stampa in relazioni ai fatti di Aprilia.
Telegiornali e testate on line, infatti, hanno pubblicato il video delle telecamere di sicurezza in cui una donna abbandona un neonato davanti al Pronto soccorso di Aprilia.
Secondo il Garante Privacy, le immagini si pongono in evidente contrasto con le disposizioni della normativa privacy e delle regole deontologiche relative all'attività giornalistica, le quali - pur salvaguardando il diritto/dovere di informare la collettività su fatti di interesse pubblico - prescrivono agli operatori dell'informazione di astenersi dal pubblicare dettagli relativi alla sfera privata di una persona.
Le immagini, peraltro registrate per altre finalità, - sottolinea il Garante - non avrebbero dovuto essere trasmesse, in quanto lesive della dignità della donna, in un momento di particolare fragilità.
Alla luce di quanto sopra, l'Autorità ha pertanto ritenuto doveroso invitare gli organi di stampa, i siti di informazione e i social media al più rigoroso rispetto delle disposizioni, astenendosi dall'ulteriore diffusione delle immagini. Il Garante si è inoltre riservato eventuali interventi di competenza nei confronti delle testate che hanno violato le regole deontologiche.
La linea sottile tra diritto di cronaca e protezione dei dati personali
In via generale va premesso chela libertà di informazione è un diritto costituzionalmente tutelato. La Costituzione, all'art. 21, recita infatti che "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".
Ciononostante, la libertà di espressione è però sottoposta a limiti volti alla salvaguardia di altri diritti inviolabili, quali la riservatezza, l'identità personale e la protezione dei dati personali.
Al pari del diritto di cronaca infatti, l'ordinamento giuridico tutela la dignità ed il decoro delle persone, riconoscendoli e garantendoli come diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Nel quadro di tali diritti, si inserisce il diritto alla protezione dei dati personali che, nello specifico, garantisce a chiunque la tutela delle informazioni che lo riguardano e assicura che il loro trattamento, da parte dei soggetti titolari, si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali dell'individuo.
In ambito privacy è l'articolo 85 del GDPR a prevedere esenzioni o deroghe a favore dell'attività giornalistica. Il trattamento dei dati operato dal giornalista è sostanzialmente libero e può pertanto trattare anche dati sensibili e giudiziari senza dover ottenere il consenso dall'interessato, purché ricorrano due requisiti:
- i dati siano stati raccolti in modo lecito e corretto (principio di liceità ex art. 6 GDPR);
- la diffusione dei dati avviene nei limiti dell'essenzialità (principio di essenzialità) dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico.
Sempre alla luce del GDPR, i giornalisti devono inoltre osservare particolari regole deontologiche per la tutela della privacy, le quali sono state pensate per non inficiare il diritto di cronaca. Le "Regole deontologiche relative ai trattamenti di dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica", pubblicate il 4 gennaio 2019, si applicano ai giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti e a chiunque altro, anche occasionalmente, eserciti attività pubblicistica.
Nello specifico, l'art. 8 delle regole deontologiche disciplina la tutela della dignità delle persone. Fatta salva l'essenzialità dell'informazione il giornalista non deve fornire notizie o pubblicare immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né deve soffermarsi su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell'immagine. Allo stesso modo non deve riprendere né produrre immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell'interessato. Il consenso non è necessario quando, a seguito di ponderata valutazione, il giornalista ritenga vi siano rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia. Le persone, inoltre, non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi.
In conclusione
In conclusione, in ambito di diritto alla cronaca e privacy, il giornalista nell'esercizio della sua attività è chiamato a prendere decisioni e ad assumersi delle responsabilità cercando di contemperare, caso per caso, il diritto all'informazione con il trattamento dei dati personali degli interessati e i loro relativi diritti. È pertanto responsabilità del professionista effettuare un vero e proprio bilanciamento tra il diritto all'informazione e privacy.
Dott.ssa Veronica Riggi e Dott. Marco Miglietta
[1] L. 18 luglio 1904, n. 390, nella sua interezza, e gli artt. 55 e 56 r.d. 1 gennaio 1905, n. 12, che distinguono per la prima volta minori materialmente e moralmente abbandonati; L. 10 dicembre 1925, n. 2277, sulla protezione e assistenza della maternità e dell'infanzia e anche nel testo unico in materia, r.d. 24 dicembre 1934, n. 2316, ancora per larga parte vigente; R.D.L. 8 maggio 1927, n. 798, che disciplina le funzioni della provincia nell'assistenza ai minori e si riferisce ai "fanciulli illegittimi abbandonati o esposti all'abbandono".
[2] Un'altra questione si pone quando la madre è una ragazza minorenne, con meno di 16 anni, perché non ha raggiunto l'età per riconoscere legalmente il figlio che dovrà essere dato in adozione. La ragazza può chiedere al Tribunale di attendere il compimento del sedicesimo anno di età per procedere al riconoscimento ma dovrà dare prova di avere alle spalle una solida famiglia che la possa sostenere e aiutare nel crescere suo figlio.