Maternità surrogata: attribuzione del criterio di maternità
Cass. civ.,
30 dicembre 2022, n° 38162
Definizione e sanzione penale.
La maternità surrogata può essere definita come un accordo concluso tra uno o più soggetti privati ed una donna, avente ad oggetto l'impegno da parte di quest'ultima ad iniziare, tramite la tecnica della procreazione medicalmente assistita, una gravidanza. Al termine di questa gravidanza il neonato sarà consegnato al soggetto committente. La maternità surrogata in Italia viene espressamente vietata dall'art. 12, co. 6, della Legge n°40/2004. La norma stabilisce che chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da € 600.000,00 ad € 1.000.000,00. Sono previste dunque sanzioni molto pesanti per chi ricorre alla maternità surrogata che sicuramente hanno contribuito a scoraggiare, ma non ad impedire il ricorso a questa procedura di procreazione. Il divieto alla maternità surrogata viene giustificato, dalla giurisprudenza di legittimità, come espressione del principio di ordine pubblico in quanto "posto a tutela di valori fondamentali" (Corte di Cassazione, SS. UU., n° 12193/2019). Come in ogni settore del diritto, anche in questo caso il legislatore è tenuto a fare una scelta discrezionale.
Nello specifico il legislatore interviene nel definire se a rendere madre sia l'aver trasmesso al neonato il proprio patrimonio genetico oppure l'averlo partorito. Il nostro sistema giuridico è improntato sul brocardo latino "mater semper certa est", locuzione che vuole che venga riconosciuto dall'ordinamento madre solo chi partorisce il bambino. In ogni caso, in situazioni in cui il nascituro, non abbia nessun legame di tipo genetico con chi lo ha partorito, ci portano a dubitare circa la scontata applicabilità dell'art. 269 c.c. Per assurdo, in ipotesi come quella della maternità surrogata in cui la gestante non fornisce nessun tipo di materiale genetico, il bambino frutto della gravidanza, ritenuto per il disposto dell'art. 269 c.c figlio della donna, non le assomiglierà, anzi, avrà patrimonio genetico e fattezze, di un altro soggetto, non ritenuto per legge suo parente. La diffusione della tecnologia biomedica che ha reso possibile il ricorso a procedure come la maternità surrogata ha sicuramento ridisegnato i contorni della relazione parentale, creando nuove forme di famiglia. Inizia ad insinuarsi l'idea che il legame di sangue non sia un parametro assoluto ma vada ridimensionato con il desiderio di prendersi cura del minore.
Contratto di maternità surrogata e dubbi etici.
Il contratto avente ad oggetto la maternità surrogata prevede che al momento della firma la madre surrogata rinunci ad ogni diritto sul futuro nascituro nella consapevolezza che il prodotto della sua gravidanza non sarà suo. Una simile impostazione circa il rapporto gestante - feto incontra numerose opposizioni a livello etico e sociale, che giustificano una totale chiusura da parte dell'ordinamento italiano nei confronti di tale pratica. La teoria della centralità delle volontà contrattuali ha fatto dubitare anche la dottrina. I sostenitori della volontà negoziale, anche in ambito di maternità surrogata, ritengono che attraverso l'autonomia negoziale si possa disporre dell'attribuzione della responsabilità parentale. Coloro che negano si possa parlare di volontà negoziale in ambito di maternità surrogata, invece, sostengono che, in caso contrario, si priverebbe il legislatore della titolarità esclusiva del potere di disporre degli status personali. Da un punto di vista giuridico il centro del problema sta nello stabilire, attraverso strumenti giuridici, il rapporto che si crea tra la persona che partorisce e chi ha voluto determinare l'intero procedimento, ovvero il genitore committente. Da questa prospettiva diventa necessario analizzare la questione dando rilievo ai bisogni del nuovo nato, prendendo atto del fatto che nel nostro sistema, tanto la maternità che la paternità si configurano come relazioni biunivoche: la relativa tutela non può mai svolgersi, né esaurirsi dando la preminenza ad uno solo dei poli delle stesse, in particolare al genitore quale soggetto che genera e che dà i "geni", rispetto al nato. Qui nasce la dicotomia. Ci troviamo davanti ad un contrasto tra diritti. Da un lato troviamo il diritto del minore di crescere ed essere educato nell'ambito della famiglia che egli riconosce come "propria", ovvero della famiglia che si è presa cura di lui, che lo ha voluto, la famiglia che trae origine dei genitori committenti. Dall'altro lato troviamo la madre surrogata, madre del nascituro ai sensi dell'art. 269 c.c., che non può essere obbligata a cedere i propri diritti sul figlio, indipendentemente da un precedente accordo. La concreta applicazione dell'art. 269 c.c. imporrebbe di procedere alla rimozione dello status di figlio della madre intenzionale e di provvedere al ricongiungimento con la madre biologica, ove ciò sia possibile.
La giurisprudenza circa la maternità surrogata conclusa all'estero.
Il divieto di maternità surrogata presente nel nostro paese ha spinto molte persone a intraprendere quello che viene definito come c.d. turismo procreativo. Cittadini italiani che si recano in paesi esteri dove la pratica in questione è ammessa al fine di ottenere, nel rispetto della lex loci, ciò che nel nostro paese è vietato. Quando la maternità viene praticata all'estero si pone la questione dello status da attribuire al nascituro e di come viene riconosciuta la genitorialità acquisita all'estero. Fulcro del problema è riconoscere lo status di figlio nei confronti di genitori "committenti" non biologici. La Corte di Cassazione nella recente sentenza n° 38162 del 30.12.2022, è stata chiamata ad esprimersi sul tema del riconoscimento della status di genitore nei confronti di un bambino nato attraverso madre surrogata. Nel caso di specie una coppia italiana si recava in Canada per concludere un accordo con una madre surrogata. Uno dei due genitori committenti contribuiva geneticamente alla gestazione. Il nascituro, dunque, veniva considerato dal diritto italiano come figlio biologico di uno solo dei genitori committenti, ovvero di colui che aveva fornito il proprio patrimonio genetico. La Corte è stata chiamata ad esprimersi sullo status del secondo genitore committente che, di fatto, non aveva nessun legame biologico con il neonato. La Suprema Corte, nella citata sentenza, si è espressa affermando che la pratica della maternità surrogata, quali siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane. La Corte, continua dicendo che l'atto di nascita di figlio, nato all'estero tramite maternità surrogata, non è immediatamente trascrivibile. L'ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è garantita attraverso l'adozione in casi particolari, ai sensi dell'art. 44, co. 1, lett. d). Legge n° 184/1983. In tale momento l'adozione, prosegue la Corte di Cassazione, rappresenta lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguente riconoscimento dello status di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino al momento della nascita.
Conclusioni.
Ad un primo sguardo si percepisce la delicatezza del tema affrontato. La Corte di Cassazione ha prospettato una soluzione che seppur giuridicamente ineccepibile non affronta il problema nella sua ampiezza. Il focus deve essere diretto al minore, frutto della maternità surrogata, e colui che maggiormente subirà conseguenze dalla scelta di questa pratica. Non viene definito un criterio dell'attribuzione della maternità per i nati da maternità surrogata all'estero. Le discrepanze presenti nei vari ordinamenti circa la regolamentazione della maternità surrogata dimostrano, ancora di più, di come sia necessaria una regolamentazione unitaria.
Dott.ssa Irene Bendinelli