Offese su Whatsapp: ingiuria o diffamazione?

01.07.2023

Cass. Pen. Sez. V, 20 luglio 2022, n. 28675

Con l'espansione delle nuove tecnologie e degli smartphone, ormai chiunque utilizza WhatsApp, l'applicazione di messaggistica gratuita più diffusa al mondo.

A questo proposito, la quinta sezione della Corte di Cassazione torna ad occuparsi di un tema molto attuale ovvero quello delle offese su WhatsApp, concentrando il suo focus sul discrimen tra il reato di diffamazione ex art. 595 c.p. e quello di ingiuria ex art. 594 c.p., quest'ultimo depenalizzato con il decreto legislativo n. 7 del 2016 e divenuto mero illecito civile punito con sanzioni pecuniarie.

Il delitto di diffamazione è previsto nel nostro codice penale all'art. 595 e punisce con la reclusione fino ad un anno o la multa fino ad € 1.032,00 chiunque offende l'altrui reputazione comunicando con più persone; l'ingiuria, invece, è/era prevista dall'art. 594 c.p. e puniva con la reclusione fino a 6 mesi o con la multa fino ad € 516,00 chiunque offende l'onore o il decoro di una persona presente.

La Corte di appello di Ancona, ribaltando la decisione del Tribunale di Ascoli Piceno, ha condannato l'imputata del reato di diffamazione, ritenendo che integrasse tale delitto l'invio di plurimi messaggi scritti e audio dal contenuto pesantemente aggressivo in una chat di Whatsapp, a cui partecipavano sia la persona offesa sia altre persone. Nella vicenda, i messaggi erano stati scatenati dal fatto che un suo contatto le aveva restituito un cucciolo di cane, regalato dalla stessa imputata, in quanto non in grado di accudirlo.

Il difensore di fiducia ha proposto ricorso per Cassazione avverso l'anzidetta sentenza, lamentando i vizi di cui all'art. 606 comma 1 lettere d) ed e): l'imputata, infatti, ha sostenuto che non si potesse configurare il reato di diffamazione bensì quello di ingiuria in quanto la persona offesa aveva immediatamente replicato alle offese indirizzate nei suoi confronti, il che significava che la stessa dovesse essere ritenuta presente.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del difensore, interrogandosi innanzitutto in merito alla natura ingiuriosa o diffamatoria dell'invio di e-mail a più destinatari, tra cui anche l'offeso, richiamando un suo recente precedente, la sentenza n. 13252 del 4/03/2021 altrimenti nota come "sentenza Viviano".

Il precedente evocato, infatti, sostiene che:

  • l'offesa diretta ad una persona presente costituisce sempre ingiuria, anche se sono presenti altre persone;
  • l'offesa diretta ad una persona "distante" costituisce ingiuria solo quando la comunicazione offensiva avviene tra autore e destinatario;
  • si configura il reato di diffamazione se la comunicazione "a distanza" è indirizzata ad altre persone oltre all'offeso,
  • integra sempre diffamazione l'offesa riguardante un assente che viene comunicata ad almeno due persone.

Gli Ermellini hanno poi approfondito il concetto di "presenza" rispetto ai sistemi di comunicazione moderni, ritenendo che "accanto alla presenza fisica, in unità di tempo e di luogo, di offeso, autore del fatto e spettatori, vi siano poi situazioni ad essa sostanzialmente equiparabili, realizzate con l'ausilio dei moderni sistemi tecnologici (call conference, audio conferenza o videoconferenza), in cui si può ravvisare una presenza virtuale del destinatario delle affermazioni offensive".

Secondo la Corte sarà, quindi, necessaria una valutazione caso per caso: se l'offesa viene operata nel corso di una riunione a distanza o da remoto, ricorrerà l'ipotesi dell'ingiuria commessa alla presenza di più persone; laddove invece vengano in rilievo comunicazioni indirizzate all'offeso e ad altre persone non contestualmente "presenti", ricorreranno i presupposti della diffamazione.

Come noto, le chat di gruppo di Whatsapp consentono l'invio di messaggi contestuali a più persone che possono riceverli immediatamente o in tempi differiti e i destinatari potrebbero leggere quei messaggi anche a distanza di tempo per i più svariati motivi: pertanto, nel secondo caso, non si potrà parlare di ingiuria ma di diffamazione.

Nel caso in esame, i Giudici hanno configurato il reato di diffamazione prendendo in considerazione la cronologia dei messaggi, l'atteggiamento tenuto dalla persona offesa (che, ad un certo punto, ha rinunciato a difendersi dalle accuse che le venivano rivolte) ma hanno anche analizzato il comportamento dell'imputata, che "esortava" la sua vittima a rispondere ai messaggi: chiaro segnale del fatto che la persona offesa non fosse rimasta collegata alla chat in tempo reale e che avesse letto i messaggi solo in un secondo momento.

Per concludere, con la sentenza in esame il Supremo Giudice ha ribadito il suo orientamento ed ha espresso il seguente principio di diritto: "per discernere quale sia l'ipotesi alla quale ricondurre il fatto storico, il Giudice di merito dovrà verificare, appunto se la persona offesa fosse virtualmente presente o assente al momento della ricezione dei messaggi offensivi; attraverso i dati di fatto emersi nel processo, in particolare, il giudicante dovrà comprendere se la persona offesa abbia percepito in tempo reale l'offesa proveniente dall'autore del fatto, accertamento che, quando non siano disponibili dati tecnici più precisi quanto ai collegamenti della persona offesa con il servizio di messaggistica, potrà passare attraverso la verifica di tempi e modi dell'invio dei messaggi e dell'atteggiamento della vittima quale emerge da precisi indicatori fattuali".

Attenzione, quindi, all''invio di messaggi "offensivi" nei gruppi WhatsApp: potrebbero costarvi molto caro!

Dott.ssa Melissa Cereda