In caso di offese via web la Camera Penale può esercitare il diritto di querela?

15.10.2022

Tribunale Viterbo, ordinanza 13 Giugno 2022 

Capita spesso di incappare nei commenti di chi, indignato, si accanisce avverso i difensori degli autori dei crimini più efferati, tentando, tramite le più adirate parole, di dipingere il ruolo dell'avvocato come il complice dell'imputato, colui, dunque, che lo appoggia e che in egual modo dovrebbe rispondere della pena applicabile al presunto responsabile del reato.

È proprio questo il contesto in cui si inserisce la recente pronuncia del Tribunale di Viterbo, il quale era stato chiamato a giudicare commenti pubblicati su piattaforme online dal contenuto offensivo e minatorio rivolti agli avvocati penalisti che avevano assunto la difesa di alcuni indagati, presunti responsabili di un grave episodio di violenza sessuale avvenuto nel capo luogo viterbese.

In ragione dei fatti sopra esposti, il presidente della Camera Penale di Viterbo presentava querela affermando che i commenti in esame integravano il reato di cui all'articolo 595 c.p., aggravato dall'utilizzo di un mezzo di pubblicità.

Risulta interessante la pronuncia in commento, con la quale il Tribunale viterbese aveva garantito l'esercizio del diritto di querela anche alla Camera Penale di Viterbo poiché la stessa costituisce un «ente collettivo» che, in quanto tale, è legittimato ad agire giudizialmente nel caso in cui le espressioni costituenti reato offendano gli interessi di cui l'ente è portatore, interessi che coincidono con quelli della categoria dei soggetti rappresentati, ossia degli avvocati iscritti alla Camera penale.

Occorre innanzitutto premettere che il diritto di querela spetta esclusivamente alla persona offesa dal reato, e secondo costante giurisprudenza "è pacifico che soggetti passivi del delitto di diffamazione siano anche gli enti collettivi, ivi compresi le associazioni, gli enti di fatto privi di personalità giuridica, i corpi amministrativi e giudiziari".

Difatti, non è corretto affermare che l'esercizio del diritto di querela spetti esclusivamente al soggetto direttamente colpito dal reato di diffamazione; questo poiché tre sono gli interessi che possono essere lesi dal reato citato: "l'uno, in capo al singolo, per quanto riguarda le offese dirette alla sua persona; un altro, facente capo all'Ente collettivo, relativamente alle espressioni offensive contro di esso dirette ed, infine, un terzo interesse, facente capo alla categoria professionale"[1].

"Tale ultimo interesse di categoria non coincide, in concreto, né con la somma degli interessi dei singoli, né con l'interesse dell'Ente; trattasi di un interesse collettivo, di cui è comunque portatore l'ente esponenziale"[2].

La legittimazione dell'Ente a proporre querela non sussiste sempre, ma va valutata caso per caso "a seconda che esso possa o meno qualificarsi come persona offesa dal reato".

Nel caso di specie, le offese arrecate dai commenti pubblicati online non avevano colpito direttamente la Camera Penale in quanto tale, ma i singoli avvocati, andando però ad offendere la categoria dei suddetti professionisti.

Ed è per tale ragione che il Tribunale viterbese afferma che "l'offesa, dunque, oltre che ai singoli difensori, appare arrecata anche alla categoria cui appartengono. Analoghe invettive, infatti, avrebbero potuto essere rivolte a chiunque avesse svolto il medesimo incarico per garantire l'esercizio del diritto inviolabile e costituzionalmente garantito di difesa, che il nostro ordinamento riconosce, in primo luogo, proprio ai soggetti indagati/imputati, ai quali il difensore viene nominato anche d'ufficio. Appare configurabile, pertanto, un'offesa ad un bene morale percepibile da più soggetti, in quanto appartenenti ad una determinata categoria, ovvero, quella degli avvocati penalisti".

È doveroso continuare a rimarcare che, sebbene il nostro sia un ordinamento che lascia spazio alla libera manifestazione del pensiero, all'interno della quale si inserisce anche il diritto di critica, non si può giustificare l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona in quanto tale.

Pertanto, corretta risulta la pronuncia di questo Tribunale, il quale ha dunque rilevato la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato di diffamazione, nella forma aggravata di cui al comma 3 dell'art. 595 c.p., condannando coloro che, nascondendosi dietro lo schermo di un computer, hanno tentato di esporre gli avvocati non solo al pubblico ludibrio, ma anche al pubblico disprezzo, tramite l'utilizzo di espressioni offensive e minatorie.

Per concludere, la Costituzionale italiana all'articolo 24 ci ricorda che "tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi". Il diritto alla difesa è inviolabile ed universale e tutti devono poter beneficiare dei mezzi per esercitarlo. 

Corollario di tale tutela è l'obbligo di assistenza, assunto ed esercitato da un professionista a ciò abilitato, l'avvocato, il cui ruolo consiste essenzialmente nella difesa dei diritti di ciascun essere umano in quanto tale, in virtù del fatto che ogni persona, colpevole o incolpevole che sia, gode del diritto fondamentale ad essere giudizialmente assistita.

È forse dunque per tale motivo che un avvocato merita la denigrazione pubblica?

Dott.ssa Federica Bontempi


[1] Tribunale Viterbo, 13/06/2022.

[2] Cit.