Permessi premio e permessi di necessità: due istituti a confronto

31.05.2023

Il permesso costituisce lo strumento mediante il quale è possibile consentire alla persona stabilmente privata della libertà di trascorrere un breve periodo di tempo nell'ambiente libero, con le cautele da determinarsi di volta in volta e con obbligo spontaneo di rientro nell'istituto penitenziario alla scadenza del termine[1].

La legge sull'ordinamento penitenziario ne individua due tipi: il permesso ordinario (c.d. permesso di necessità) e il permesso premio, introdotto con l'art.9 della L. 663/86.

Il permesso di necessità, prescindendo del tutto dal comportamento carcerario dell'interessato e dalla sua stessa pericolosità sociale, è legato principalmente ad avvenimenti eccezionali e gravi assolutamente estranei alla sua vita o alla sua condotta. Il permesso c.d. di "rieducazione", invece, consente al detenuto di "uscire temporaneamente" dal carcere, per periodi non superiori a quindici giorni, fino ad un massimo di quarantacinque giorni all'anno, per coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro.

L'art.30 ord. pen. (L. n. 374/1975), in combinato disposto con l'art. 64 reg. esec. (D.P.R. 230/2000), detta la disciplina dei permessi ordinari – nella prassi definita "di umanizzazione" - concedibili a tutte le categorie di persone private della libertà in forma piena o attenuata ovvero ai condannati, agli internati e agli imputati (anche se agli arresti domiciliari) in presenza di due distinti presupposti: «imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente» ed eccezionalmente «per eventi familiari di particolare gravità».

La richiesta di permesso, possibilmente con la documentazione comprovante il grado di parentela, nonché la gravità della malattia, va inviata al magistrato di sorveglianza; per contro, laddove non sia ancora intervenuta sentenza di condanna, il giudice competente a pronunciarsi in ordine alla richiesta è quello presso cui pende il giudizio.

A ogni buon conto, prima di pronunciarsi sull'istanza, l'autorità competente è tenuta ad acquisire informazioni circa la sussistenza del motivo addotto dal richiedente a mezzo delle autorità di pubblica sicurezza, anche del luogo in cui l'istante chiedere di recarsi (art.30 bis o.p.).

In ordine ai limiti di durata, il permesso ordinario non può essere concesso per un tempo superiore a cinque giorni, oltre a quello necessario per raggiungere il luogo dove il detenuto o l'internato deve recarsi (e per ritornare in istituto).

Nell'ipotesi in cui il "permessante" non faccia rientro in istituto - senza giustificato motivo – allo scadere del termine, la norma punisce in via disciplinare «l'assenza che si protrae per oltre tre ore e per non più di dodici» ed impone una denuncia per delitto di evasione se «l'assenza si protrae per un tempo maggiore» (cioè oltre le dodici ore).

Il legislatore riconosce, altresì, al giudice la possibilità di disporre col provvedimento di concessione – avente la forma del decreto motivato - che l'interessato venga scortato in tutto o in parte del permesso, tenuto conto della personalità del soggetto, della sua evoluzione nonché in base all'indole del reato per il quale è imputato o è stato condannato il fruitore. Ai fini di una corretta valutazione sulla concessione ovvero sul diniego del provvedimento di cui sopra, il magistrato di sorveglianza o la competente autorità giudiziaria può ottenere dalla direzione dell'istituto tutte le informazioni e gli elementi necessari.

In ogni caso, il decreto deve tassativamente stabilire le prescrizioni imposte al destinatario ad esempio: obblighi di permanenza al domicilio per un tempo determinato, osservanza di particolari orari, presentazione alle autorità di pubblica sicurezza ed altro.

La disciplina del permesso premio - rispondente ad una dichiarata ratio premiale e ad una logica retributiva parametrata alla condotta del detenuto - è delineata agli artt.30 ter – 30 quater dell'ordinamento penitenziario e 65 del D.P.R. 230/2000.

Contrariamente al permesso di necessità, può essere concesso soltanto ai 'condannati', cioè coloro che sono detenuti in espiazione di pena conseguente a sentenza di condanna passata in giudicato, i cosiddetti "definitivi".

L'ordinamento, conscio della delicatezza dell'istituto, ha subordinato la concessione del beneficio alla sussistenza di requisiti obiettivi attinenti in modo specifico al tipo e al quantum di pena da espiare, nonché alla concreta "meritevolezza" soggettiva del provvedimento.

In particolare, i permessi premio possono essere concessi[2]:

  • ai condannati alla pena dell'arresto o alla reclusione non superiore a quattro anni anche se congiunta all'arresto. Tuttavia, in presenza di detenuti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'art.99 comma 4 c.p., solo dopo l'espiazione di un terzo della pena;
  • ai condannati alla pena della reclusione superiore a quattro anni, dopo l'espiazione di almeno un quarto della pena. In caso di recidiva, solo dopo l'espiazione della metà della pena;
  • ai condannai alla reclusione per taluno dei delitti indicati nel comma 1,1 ter e 1 quater dell'art.4 bis, dopo l'espiazione di almeno metà della pena e, comunque, di non oltre dieci anni. Anche in tal caso, se si tratta di detenuti recidivi (art.99 comma 4 c.p.), solo dopo l'espiazione di due terzi della pena, e comunque, di non oltre quindi anni.
  • nei confronti dei condannati dell'ergastolo, dopo l'espiazione di almeno dieci anni.

Come già accennato, l'operatività dell'istituto è, altresì, collegata alla sussistenza di alcuni requisiti di tipo soggettivo inerenti il comportamento e la personalità del destinatario.

Invero, il condannato deve aver tenuto una regolare condotta che consiste nell'aver manifestato, durante il periodo detentivo, un costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate all'interno degli istituti e nel corso di eventuali attività lavorative o culturali (comma 8, art.30 ter).

Il magistrato di sorveglianza dovrà tener conto del parere - obbligatorio ma non vincolante - del direttore dell'istituto penitenziario che si avvarrà dell'ausilio del gruppo di osservazione e trattamento.

Ulteriore presupposto soggettivo è l'assenza di pericolosità sociale che andrà determinata con riguardo alla probabilità di recidiva in vista della temporanea liberazione del condannato. Sarà, dunque, necessario valutare le condizioni soggettive del detenuto non già con riguardo al suo comportamento carcerario, bensì in relazione alla sua presumibile condotta una volta posto in libertà, sia pure per il tempo limitato alla fruizione del permesso.

Per fornire al giudice elementi il più possibile oggettivi e fondati, tali da ridurre al minimo gli errori di valutazione, sarebbe pertanto opportuno acquisire, oltre il certificato penale dell'interessato e la copia della sentenza di condanna, dettagliate informazioni da parte degli organi di Polizia del luogo di abituale dimora dell'interessato. [3]

Non è sufficiente un comportamento solo formalmente corretto o la semplice assenza di rilievi disciplinari, è necessario, invero, che il soggetto assuma una condotta senza dubbio sintomatica di una reale volontà di partecipare all'opera rieducativa e di reinserimento nel tessuto sociale, ciò anche al fine di evitare possibili strumentalizzazioni da parte del detenuto.

Fra gli indici rivelatori di una sincera "revisione critica" del proprio passato sono pacificamente ammessi dalla Giurisprudenza, i fattori culturali, sociali ed antropologici tra i quali rientrano, a titolo esemplificativo, i rapporti con i familiari e gli altri soggetti ammessi ai colloqui, le relazioni con i compagni di detenzioni o con gli operatori penitenziari ed ancora la disponibilità alla partecipazione alle attività trattamentali come quelle scolastiche, lavorative, culturali e/o ricreative.

Altrettando significativo è il comma 3 dell'art.30 ter attraverso il quale il legislatore, disponendo un esplicito collegamento dell'esperienza del permesso con il programma di trattamento (che dovrà essere normalmente predisposto prima dell'ammissione del soggetto al beneficio), riconosce un ruolo fondamentale agli educatori e assistenti penitenziari, tenuti ad operare in collaborazione con gli operatori sociali del territorio. Fra questi ultimi assumono particolare rilievo non solo quelli volontari (singolo, associati o cooperativizzati), ma anche quelli dei Comuni, delle Unità Sanitarie Locali, delle Comunità montane cui viene riconosciuto l'esercizio di specifiche funzioni nell'ambito del piano socio - sanitario.

Tuttavia, nei confronti dei soggetti che durante l'espiazione della pena o delle misure restrittive hanno riportato condanna o sono imputati per delitto doloso commesso durante l'espiazione della pena o l'esecuzione di una misura restrittiva della libertà, la concessione dei permessi premio è ammessa solo dopo il decorso di due anni dalla commissione del fatto. [4]

Giova, per concludere, richiamare una recente orientamento della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1 op nella parte in cui prevede che ai condannati per i delitti ivi indicati non possano essere concessi permessi premio in assenza della collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-quater o.p.p allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il ripristino di tali collegamenti.[5] Ebbene, l' intervento correttivo della Consulta, pur non avendo inficiato il ricorso tout court al regime delle preclusioni, è intervenuto su una specifica ipotesi, la cui dichiarazione di illegittimità indebolisce la solidità dei regimi preclusivi che il legislatore ha inserito, e progressivamente irrigidito, nella disciplina dell'ordinamento penitenziario.[6]

Dott.ssa Francesca Saveria Sofia

[1] Manuale di diritto penitenziario 2010, Canepa – Merlo, pt.171

[2] La Corte Costituzionale con sentenza n.227 del 6 giugno 1995 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 4 nella parte in cui non prevede l'ammissione ai permessi premio dei condannati alla reclusione militare.

[3] il D.L. 152/1991 ha previsto, per i condannati per reati di maggiore allarme sociale, l'intervento informativo di un organo particolarmente qualificato: il Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica (CPOSP) che deve fornire al magistrato informazioni circa la pericolosità sociale, nonché l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.

[4] A tal proposito è da segnalare la sentenza n.493/1997 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.30 ter comma 5 nella parte in cui si riferisce ai minorenni.

[5] Corte Cost., sentenza n.253/2019

[6] Per maggiore chiarezza V. Permessi premio e reati ostativi. Condizioni, limiti e potenzialità di sviluppo della sent.253/2019 della Corte Costituzionale, in La legislazione penale p.3, Pelissero M.