Screenshot di Messenger: prova nel reato di diffamazione aggravata
Cass. Pen., Sez. V, 26 aprile 2022, n. 24600
Fenomeno sociale che sta prendendo sempre più piede nella società odierna è lo sfogo sui social network da parte dei c.d. "leoni da tastiera" che utilizzano le piattaforme digitali anche per offendere, a volte anche pesantemente, la reputazione altrui.
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Tale condotta integra la fattispecie più grave del reato di diffamazione, ossia quella punita ai sensi dell'art. 595, comma 3, c.p. con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro.
Invero, il fatto di aver pubblicato commenti offensivi su Internet determina l'amplificazione della portata diffamatoria di una dichiarazione: questa può essere visualizzata e letta da un numero vastissimo e potenzialmente illimitato di utenti.
Infatti, come da tempo osservato dalla Corte di Cassazione, la condotta di chi pubblica su Facebook messaggi lesivi dell'altrui reputazione integra il reato di diffamazione aggravato dalla circostanza di cui al terzo comma dell'art. 595 c.p.: "in tema di diffamazione, sussiste l'aggravante dell'utilizzo del mezzo di pubblicità (art. 595 comma 3 c.p.) allorquando il fatto sia commesso mediante la pubblicizzazione su un profilo di Facebook, perché l'inserimento della frase che si assume diffamatoria su tale social network la rende accessibile a una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network e, comunque, a una cerchia ampia di soggetti nel caso di notizia riservata agli amici" (Cassazione penale, sez. I, 22/01/2014, n. 16712).
Un modo per poter provare la condotta offensiva possono essere gli "screenshot", ossia dei fermo immagine di un dispositivo elettronico come lo smartphone.
Sul punto è intervenuta una pronuncia della Corte di Cassazione, Sezione V Penale, con la sentenza n. 24600/2022.
In particolare, il Giudice di Legittimità ha dovuto decidere sul ricorso presentato dal difensore degli imputati, in cu lamentava l'inutilizzabilità delle conversazioni in chat riprodotte dagli screenshot utilizzate dalla Corte di Appello per confermare la penale responsabilità dei predetti.
Tuttavia, rigettando l'impugnazione, la Corte ha chiarito che "Non costituisce intercettazione, ai sensi degli artt. 266 e segg. cod. proc. pen., la documentazione delle comunicazioni svoltesi su una chat estratte, quantunque senza l'autorizzazione degli altri utenti, a mezzo screenshot da parte di uno dei soggetti che sia ammesso ad assistervi, dunque legittimato a parteciparvi attivamente o anche ad assistere passivamente, costituendo forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l'autore o l'autorità giudiziaria può disporre legittimamente, a fini di prova nel processo secondo la disposizione dell'art. 234 cod. proc. pen.".
Gli Ermellini giungono a tale conclusione dopo un preciso percorso argomentativo.
In primo luogo la Corte, riprendendo quanto statuito nella sentenza n. 8332/2019 emessa dalla Cassazione Sez. III Penale, ha spiegato come siano utilizzabili, in quanto costituiscono documento, i messaggi sms del cellulare che siano stati ripresi da altro dispositivo (la foto dello schermo fatte da altro telefono, per intenderci) poiché "non è imposto alcun adempimento specifico per il compimento di tale attività, che consiste nella realizzazione di una fotografia e che si caratterizza soltanto per il suo oggetto, costituito appunto da uno schermo" sul quale sia visibile un testo o un'immagine "non essendovi alcuna differenza tra una tale fotografia e quella di qualsiasi altro oggetto". Tale orientamento è stato ritenuto tra l'altro condivisibile dalla Corte di Cassazione, Sezione V Penale, con la sentenza recentissima n. 12062/2021, che riguardava una fotografia istantanea dello schermo (screenshot) di un dispositivo elettronico.
Altresì, il Giudice di Legittimità ha evidenziato la valenza probatoria del fermo immagine realizzato con il telefono cellulare, il c.d. screenshot, in quanto non riconducibile nell'alveo della disciplina delle intercettazioni (art. 266 e segg. c.p.p.).
In tal senso, la Corte di Cassazione ha seguito l'orientamento precedentemente espresso nella sentenza n. 6339/2013 secondo cui "la registrazione fonografica di un colloquio svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, operata, sebbene clandestinamente, da un soggetto che ne sia partecipe o, comunque, sia ammesso ad assistervi, costituendo, invece, una forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l'autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova". E ciò alla luce anche di quanto affermato dalle Sezioni Unite nel 2003 con la sentenza n. 36747, secondo cui le intercettazioni regolate dagli artt. 266 e segg. c.p.p. consistono in captazioni occulte e contestuali, poste in essere da un soggetto estraneo ad una comunicazione-conversazione tra due o più soggetti che agiscono con l'intenzione di escludere altri. Ne consegue che la registrazione fonografica di un colloquio ad opera di un soggetto partecipe, o ammesso ad assistervi, non è riconducibile, anche quando eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, ma costituisce una "forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l'autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo secondo la disposizione dell'art. 234 c.p.p., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa".
Pertanto, tale principio è stato ritenuto applicabile anche al caso di specie, secondo cui lo screenshot, l'istantanea dello schermo o la foto dello schermo operato dall'interlocutore, o da altro soggetto ammesso, può costituire documento ai sensi dell'art. 234 c.p.p. valutabile ai fini della prova.
Avv. Elia Francesco Dispenza