Suicidio nelle carceri: la crisi del sistema penitenziario italiano

10.09.2022

"Il suicidio dimostra che ci sono nella vita mali più̀ grandi della morte."

(Francesco Orestano)

Il termine "suicidarsi" deriva dal latino sui e caedes, che letteralmente significa "uccisione di sé stesso".

Le possibili spiegazioni del suicidio sono innumerevoli e i tentativi di classificare le diverse manifestazioni del complesso fenomeno nel corso della storia lo sono altrettanto.

Elemento comune, presente in qualsivoglia definizione, che in questo elaborato verrà̀ tenuto in considerazione nel definire il suicidio, è la caratteristica determinante dell'intenzionalità del gesto e della consapevolezza dell'esito.

Per ogni suicida la società̀ è percepita come assente e lontana; il soggetto avverte la mancanza di quello scambio e quella partecipazione necessari a sentirsi parte integrante della comunità̀ di riferimento e ciò provoca una frattura incolmabile nella sua identità̀ sociale.

In Italia, per molto tempo, il grave problema della violenza etero e autoinflitta in carcere è stato sottaciuto, minimizzato, coperto sotto un velo di omertà e silenzio.

Solo recentemente, a fronte dei numerosi casi di suicidi all'interno delle prigioni, ha assunto sempre maggiore rilevanza all'interno del dibattito in materia di umanizzazione della pena.

Per poter affrontare al meglio l'argomento e apprezzare l'importanza del fenomeno nella realtà̀ italiana, risulta necessario comprendere la reale portata del fenomeno affidandosi a dati statistici.

Secondo la statistica il suicidio è la causa più̀ comune di morte in carcere.

L'ambiente carcerario è regolato, infatti, da norme interne rigide ed inflessibili che inducono uno stato di anomia, con conseguenze psicologiche e comportamentali sul detenuto.

Purtroppo, non è un fenomeno epidemiologico che riguarda solo i detenuti, vittime della costrizione di libertà, dell'isolamento dalla società e della prisonization; il trend riguarda anche l'incidenza dei suicidi tra il personale della Polizia Penitenziaria.

Negli studi più̀ recenti sul disagio in carcere l'attenzione si sposta dalle variabili endogene e patologiche, ad altre variabili di natura esogena, d'ordine sociale ed istituzionale.

Lo studio delle variabili sociologiche e di contesto lascia intravedere una possibilità̀ organizzativa concreta che può̀, ad esempio, consentire di utilizzare meglio le figure professionali d'aiuto, indirizzando e concentrando il loro contributo solo nei confronti delle persone che esprimono con l'autolesionismo un disagio esistenziale profondo.

I suicidi nelle carceri fanno parte di una disciplina multifattoriale, idografica e nomoteica.

Capirne l'aspetto psicosomatico, significherebbe studiare scientificamente la criminalità, del reo, del comportamento e del contesto ivi collocato.

Il rapporto tra l'osservazione penitenziaria ed il trattamento rieducativo prevede l'analisi di fattori individuali, familiari, ovvero del peso dell'ambiente sociale nel comportamento delinquenziale.

Osservazione e trattamento procedono insieme in un percorso di conoscenza e contatto graduale tra gli operatori ed il soggetto e, per poter avanzare in questo percorso sono stati previste una serie di servizi e variabili.

Tra le variabili suscettibili di attenzione, sicuramente vi sono le variabili temporali, in quanto si è registrata una maggiore frequenza al suicidio nel primo anno di detenzione.

Tra le variabili giuridiche, invece, si registra il fenomeno, nei soggetti che si trovano in attesa di rinvio a giudizio o di sentenza di primo grado o di appello.

La cultura giuridica locale è determinata da una pluralità̀ di fattori che sono spesso il frutto di dinamiche relazionali non trascurabili.

Fra alcuni degli attori maggiormente influenti troviamo il direttore, la magistratura di sorveglianza, la polizia penitenziaria, gli educatori, gli assistenti sociali e via dicendo. Tutti giocano un ruolo significativo, attraverso le loro scelte e le loro relazioni, nel determinare le prassi e le dinamiche d'azione che terminano con il creare le pratiche penitenziarie proprie di un determinato carcere.

Esempio emblematico, è il recentissimo caso di Donatella Hodo; si racconta di una ragazza fragile, e paradossalmente vengono messi in evidenza le falle di un sistema giudiziario e penitenziario che avrebbe dovuto educare e non minacciare.

Le "stanze di giustizia" dovrebbero osservare i pensieri del detenuto.

L'osservazione rappresenta, quindi, uno dei metodi più adatti per la raccolta di dati relativi al comportamento non verbale ed all'interazione tra gli individui in un ambiente dove la comunicazione non verbale è altamente censurata.

Il regime autoritario, infatti, rappresenta un terreno fertile per la creazione di un clima di tensione e antagonismo in grado di generare reazioni estreme quali il suicidio o l'autolesionismo.

In Italia questi ultimi sembrano aumentare a dismisura in particolari periodi dell'anno per ragioni che vanno ricercate nelle dinamiche locali e interne alle istituzioni penitenziarie.

A tal proposito pare utile introdurre il concetto di crisi del sistema, indicando quei particolari momenti di disordine e astio, caratterizzati dal ripetersi di eventi critici, che mettono a dura prova le relazioni fra custodi e custoditi, sfociando in adattamenti comportamentali fuori controllo.

I fattori socio - relazionali ed individuali, risaltano il senso di angoscia, a maggior ragione quando ci si trova davanti al fenomeno del sovraffollamento.

Studi circoscritti, hanno permesso di mettere in risalto il concetto di hardiness, intendendo l'abilità di affrontare con coraggio condizioni difficili e quello di resilienza, indicando la capacità di sopportare i traumi conservando una buona salute psichica e ritrovando un buon equilibrio dopo l'evento negativo.

L'analisi dei fattori di resilienza interviene nelle situazioni traumatiche al fine di alleviare le sofferenze da esse scaturite, migliorando l'interpretazione degli eventi e attribuendo senso e significato a quanto accade.

In realtà focus primordiale non è tanto, o per lo meno non solo, l'affollamento carcerario - problema che negli ultimi anni ha avuto molto eco a livello mediatico- quanto, piuttosto, l'incapacità individuale di adeguarsi e procurarsi condizioni di vita migliori in un ambiente di forte concentrazione umana.

Un discorso oculato meriterebbe sicuramente lo status mentale in cui il soggetto si trova al momento dello stato detentivo, frutto di situazioni psicologiche pregresse che ne hanno caratterizzato i disturbi dell'identità.

Il carcere è un luogo di reclusione con il presupposto primario di allontanare le persone dalla società; un mondo dentro il mondo, con regole, alienazioni, mancanze e contraddizioni; un mondo sconosciuto e volutamente lontano dalla società.

All'interno di questo universo, ci devono essere dei limiti invalicabili, dei principi di civiltà̀ che separano la pena dalla tortura; tali limiti, se oltrepassati, trasformano la detenzione in "distruzione". Gli atti di suicidio e di autolesionismo pongono l'istituzione di fronte alla propria coscienza aprendo molti interrogativi riguardo alle linee preventive da adottare e, in generale, riguardo allo scopo ultimo dell'istituzione stessa.

E', quindi, dovere dello Stato quello di rendersi responsabile del trattamento delle persone detenute.

Un problema all'interno delle mura di un carcere coinvolge l'intera società̀.

"I detenuti non sono solo meritevoli di ascolto del loro punto di vista, ma anche del riconoscimento del fatto che costituiscono una risorsa importante per il buon andamento della comunità̀ penitenziaria".[1]

I detenuti sono persone e come tali vanno trattate; persone che devono essere riconosciute con il loro nome, con la loro storia, e non solo per il loro numero di matricola.

Avv. Francesca Polimeni


[1] "La pena ed i diritti. Il carcere nella crisi italiana" Mancini, L. e Torrente G. (2015)