Tortura di Stato: analisi del reato ed interpretazione giurisprudenziale
Come chiarito dalla Suprema Corte con molteplici arresti, con "Tortura di Stato" deve intendersi la condotta del P.U. che esercita violenze o gravi minacce ai danni di una persona privata della libertà personale al fine di punirla, intimidirla o ottenere informazioni.
La figura delittuosa di cui all'art. 613-bis c.p.[1] – punita con la reclusione da 4 a 10 anni nell'ipotesi base e da 5 a 12 anni per il fatto in cui il P.U. abusi dei propri poteri o agisca in violazione dei doveri scaturenti dalla propria funzione o al servizio – ha subito un'evoluzione anche sulla scorta delle interpretazioni della Corte EDU in relazione al divieto di tortura di cui all'art. 3 CEDU.
Si tratta di un delitto a dolo generico, richiedente la mera coscienza e volontà delle singole condotte, formalmente vincolato per le modalità della condotta, plurima o abituale ovvero, in alternativa, comportante un trattamento inumano e degradante della persona umana[2].
Il bene giuridico tutelato deve individuarsi nella libertà morale e psichica dell'individuo a non essere sottoposto a coercizioni psichiche incidenti sulla sua capacità di autodeterminazione.
Quanto al significato da attribuire alla "crudeltà", la Cassazione ha chiarito che "integra un requisito di natura prettamente valutativa e intrinsecamente dotato di forte carica valoriale", in grado di provocare alla vittima ulteriori patemi e sofferenze rispetto alla privazione della libertà.
Gli Ermellini, sulla scorta dell'art. 1 della Convenzione ONU del 1984, inoltre, hanno chiarito che il comma II dell'art. 613-bis c.p. integra un'ipotesi autonoma di reato, svincolata dai presupposti del I comma.
Da ultimo la Suprema Corte, Sez. V Penale, con la Sent. n. 47079/2019, circa la natura del reato de quo, ha avuto modo di specificare come sia stato configurato dal legislatore "come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell'incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Ne consegue che la fattispecie in esame possa essere sia configurata da una reiterazione di plurime condotte, sia mediante una pluralità di contegni violenti tenuti nello stesso contesto spaziotemporale.
In particolare, in occasione dei gravi fatti che hanno coinvolto diversi Agenti della Polizia Penitenziaria all'interno del Carcere di Santa Maria Capua Vetere, la Corte, in senso contrario alla classificazione operata dal Giudice di merito – ex art. 40 cpv c.p. come responsabilità omissiva – ha ritenuto sussistente una responsabilità commissiva, per aver concorso in condotte legate eziologicamente all'evento lesivo.
[1] Introdotto dall'art. 1, L. n. 110 del 14/07/2017.
[2] Cass. Pen., Sez. V, Sent. dell'08/07/2019, n. 47079.