La vendita dei beni degli enti locali

29.06.2024

Accade sempre più di frequente che gli Enti Locali, e specialmente i Comuni, dismettano beni del proprio patrimonio, soprattutto immobili.

Gli alti costi di gestione, le esigenze di bilancio e la progressiva riduzione dei servizi (e quindi degli spazi che occorrono per poterli erogare) spingono fortemente in questa direzione.

Tuttavia, i beni di proprietà pubblica sono soggetti ad un regime peculiare, e gli Enti Pubblici possono disporne soltanto entro limiti ben precisi, il primo e più importante dei quali dipende dalla stessa natura del bene.

I beni pubblici, infatti, si dividono in beni demaniali e beni patrimoniali.

Quanto ai primi, si distingue tra beni del demanio cd. "necessario" o "naturale" (quali il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti, i fiumi, i laghi etc.), cioè beni naturalmente destinati a soddisfare interessi pubblici e dunque necessariamente di proprietà dello Stato o degli Enti Locali (art. 822, comma 1, e 824 c.c.) e beni del demanio cd. "accidentale" (quali strade, autostrade, ferrovie, aeroporti, acquedotti, immobili di interesse storico, etc.), cioè beni destinati a soddisfare interessi pubblici e quindi demaniali soltanto se di proprietà pubblica (art. 822, comma 2, e 824 c.c.).

Ai sensi dell'art. 823 c.c. i beni che fanno parte del demanio pubblico non possono essere alienati, e su di essi non si possono costituire diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (cioè, in estrema sintesi, soltanto con un provvedimento amministrativo dell'ente proprietario, solitamente una concessione d'uso, e per un tempo determinato).

Si definiscono invece beni patrimoniali tutti i beni appartenenti allo Stato e agli Enti Locali che non siano della specie di quelli sopra indicati (826 c.c.).

Tra i beni patrimoniali, si dicono indisponibili quelli che per la loro destinazione pubblica non possono essere alienati o comunque sottratti dal patrimonio dell'Ente pubblico di appartenenza (art. 828, comma 2, c.c.), quali ad esempio le foreste, le miniere e le cave, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici e in generale tutti i beni destinati a un pubblico servizio (art. 826 c.c.).

Il passaggio di un bene dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato deve essere disposto dall'Amministrazione con apposito provvedimento adeguatamente pubblicato (cd. "sdemanializzazione": art. 829 c.c.)

Come anticipato, quindi, un primo limite alla vendita di beni pubblici deriva dalla natura stessa del bene: si è appena visto, infatti, che possono essere venduti soltanto i beni del patrimonio disponibile. Soltanto rispetto a tali beni l'Amministrazione può stipulare normali contratti di diritto privato e/o costituire diritti reali in favore di terzi.

Nel caso degli immobili, poi, una seconda condizione affinché un Ente Locale possa regolarmente alienare un proprio bene (patrimoniale e disponibile) è che esso sia stato preventivamente individuato e inserito in un apposito elenco.

In particolare, ai sensi dell'art. 58 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella L. 6 agosto 2008, n. 133, Regioni, Province, Comuni e altri Enti locali, con delibera della Giunta, redigono ciascuno un apposito elenco (il "piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari") nel quale inseriscono i singoli beni immobili non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di essere valorizzati o venduti.

Il Piano, approvato dal Consiglio contestualmente al bilancio di previsione di cui è parte integrante, ha effetto dichiarativo della proprietà comporta la classificazione degli immobili come patrimonio disponibile e costituisce autorizzazione alla loro alienazione.

È anche importante segnalare che il D.L. 23 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, ha introdotto alcune disposizioni specifiche e particolari per la privatizzazione e la valorizzazione del patrimonio immobiliare.

In particolare, i primi tre articoli del citato decreto-legge introducono una procedura di cartolarizzazione, alla quale possono facoltativamente aderire anche gli Enti Locali, mediante la quale gli immobili vengono trasferiti ad una o più società (c.d. società veicolo), appositamente costituite, che ne finanziano l'acquisto attraverso l'emissione di titoli o mediante finanziamenti acquisiti da terzi. La società veicolo versa agli enti che hanno ceduto gli immobili l'importo raccolto attraverso tali operazioni a titolo di prezzo "iniziale" e, successivamente, gestisce gli immobili e li rivende sul mercato (con preferenza per i conduttori del bene). In questo modo si generano dei flussi finanziari, che la società veicolo utilizza per rimborsare il debito e che, in caso di eccedenza, versa al proprietario originario come prezzo "differito".

Nel corso degli anni sono state emanate anche altre disposizioni relative a categorie più ristrette di beni pubblici, che però riguardano esclusivamente o principalmente beni statali[1].

Infine, una terza importante peculiarità della vendita di beni pubblici riguarda l'aspetto procedurale e, in particolare, la modalità di selezione del compratore. Infatti l'ordinamento -interno e sovranazionale- obbliga le amministrazioni a seguire procedura di evidenza pubblica, relegando a ipotesi del tutto residuali e marginali la trattativa privata con uno specifico soggetto.

In particolare, l'art. 3, comma 1, R.D. 2440/1923 (ripreso dall'art. 37 del regolamento attuativo, R.D. 827/1924), ancora vigente, prevede che i "i contratti dai quali derivi un'entrata per lo Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti, salvo che per particolari ragioni, delle quali dovrà farsi menzione nel decreto di approvazione del contratto, e limitatamente ai casi da determinare con il regolamento, l'amministrazione non intenda far ricorso alla licitazione ovvero nei casi di necessità alla trattativa privata".

L'art. 6 del medesimo R.D. 2440/2023 specifica ulteriormente che il contratto può essere concluso a trattativa privata soltanto "qualora, per gravi ed eccezionali circostanze, che dovranno risultare nel decreto di approvazione del contratto, non possano essere utilmente seguite le forme" ordinarie.

Il R.D. 827/1924 individua poi, all'art. 41, le specifiche ipotesi nelle quali è ammesso il ricorso alla trattativa privata. Tra queste: il fallimento di precedenti incanti, l'acquisto di cose per cui non è possibile promuovere il concorso di pubbliche offerte, l'acquisto di beni prodotti da una sola ditta, particolari ragioni d'urgenza e ogni altro caso in cui ricorrono speciali ed eccezionali circostanze debitamente motivate per le quali non possano essere utilmente seguite le forme ordinarie.

Si tratta di ipotesi tassative e di stretta interpretazione, che l'Amministrazione deve puntualmente motivare nel provvedimento di approvazione del contratto, trattandosi di garantire la massima trasparenza e imparzialità nella cessione dei beni pubblici, nonché il rispetto dei principi di tutela della concorrenza e di par condicio nelle procedure ad evidenza pubblica, posti anche dalla normativa europea[2].

Le ipotesi in cui la prassi e la giurisprudenza ammettono, eccezionalmente, il ricorso alla trattativa privata (oltre a quella di una precedente asta andata deserta) sono ad esempio la compravendita tra Enti Pubblici, la permuta con area privata di specifico interesse dell'amministrazione o la vendita di un immobile che riveste interesse per un solo acquirente (tipico il caso di porzioni di aree di modesta entità, prive di autonomo utilizzo, intercluse e raggiungibili solo attraverso le proprietà confinanti).

Norme del tutto analoghe sono poi anche previste dalla Legge 24 dicembre 1908, n. 783 ("unificazione dei sistemi di alienazione e di amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato") e dal relativo regolamento approvato con R.D. 17 giugno 1909, n. 454, ove si prevede soltanto, quale ulteriore eccezione, la possibilità di vendere a trattativa privata beni immobili disponibili il cui valore di stima non superi le lire 30.000.000 (circa € 15.500) o, in casi eccezionali espressamente motivati, le lire 75.000.000 (circa € 39.000).

Al contempo, l'art. 12, comma 2, della L. 127/1997, fatti salvi i principi generali desumibili dalle norme sopra richiamate, prevede che i Comuni e le Province possano procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle disposizioni legislative sopra ricordate, ma a condizione di approvare e rispettare un apposito regolamento che garantisca adeguati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto[3].

Tutte tali disposizioni sono poi richiamate e confermate anche dall'art. 192 del Testo Unico degli Enti Locali (D. Lgs. 267/00), cioè il testo normativo fondamentale che disciplina l'ordinamento e l'attività dei Comuni e delle Province.

Infine, per completezza si segnala che i commi 433 e 436 dell'art. 1, L. 311/2004 prevedono ulteriori ipotesi di vendita a trattativa privata, riservate però ai beni di proprietà dello Stato e soltanto in relazione a "quote indivise di beni immobili, fondi interclusi nonché diritti reali su immobili" e a beni immobili "di valore unitario o complessivo non superiore ad euro 400.000".

Come già accennato, disposizioni analoghe sono state approvate per specifiche categorie di beni statali[4].

Anche in relazione a questa disciplina, la giurisprudenza ha ribadito più volte che è illegittima la procedura di vendita di un immobile pubblico senza adeguata pubblicità e mediante trattativa privata con uno o più soggetti. Una tale operazione economica, comportando un'entrata per l'ente pubblico, deve infatti necessariamente essere preceduta da un'adeguata e congrua pubblicizzazione e una conseguente gara tra gli eventuali interessati all'acquisto, alla stregua delle disposizioni sopra richiamate, salvo che ricorrano le particolari e serie ragioni di deroga cui si è già accennato[5].

Neppure la più recente normativa di cui al citato art. 12, comma 2, della L. 127/1997 ha affrancato gli enti pubblici locali dall'adozione, in via regolamentare, di "criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto", nel senso che l'alienazione del bene pubblico non può, comunque, derogare ai prescritti criteri e modalità trasparenti, a discapito dell'interesse pubblico ad una maggiore entrata, ove – per la natura del bene, per la presenza di confinanti o per la probabile esistenza di terzi interessati – sia consentito a più soggetti di presentare un'offerta[6].

Avv. Julien Mileschi


[1] Ad es.: articolo 7 del D.L. 24 dicembre 2002, n. 282; articolo 5-bis del D.L. 24 giugno 2003, n. 143; articolo 26, comma 9-bis, del già citato D.L. n. 269 del 2003; articolo 41-bis, comma 6, del già citato D.L. n. 269 del 2003; articolo 1, comma 433, della legge 30 dicembre 2004, n. 311; articolo 1, commi 434-435, della stessa legge n. 311 del 2004; articolo 1, comma 436, della medesima legge n. 311 del 2004, etc.

[2] T.A.R. Genova, sez. I, 07/03/2008, n.380; T.A.R. Campania, Sez. VII, 24/11/2015, n. 5456.

[3] Consiglio di Stato, sez. V, 29 maggio 2018, n. 3227.

[4] Si rinvia alla nota 1.

[5] TAR Veneto, sez. I, 8/05/2014, n. 580; TAR Lazio, sez. II, 20/06/2016, n. 7153; T.A.R. Salerno, sez. II, 04/09/2019, n.1490; T.A.R. Napoli, Sez. VII, 24/11/2015, n. 5456.

[6] TAR Parma, 21/03/2018, n. 83; T.A.R. Salerno, sez. II, 04/09/2019, n.1490.